La pandemia ha fatto emergere molti problemi e questioni legati non solo alla sfera del mondo sanitario ma anche in tutto il nostro modo di vivere. Ne esiste uno molto importante legato alla narrazione e allo storytelling della scienza e della cultura. Sicuramente non è il problema principale, ma è una questione che investe il modello di comunicazione del nostro mondo cosa che non è affatto secondaria. Sono ormai circa 25 anni che la società di massa ha accelerato la sua parabola discendente trasformandosi in una società dei frammenti e delle nicchie. Gli stessi studi sul consumi lo provano. Le grandi cerimonie dei media appartengono ad un passato recente e la pandemia sta modificando non solo la fruizione degli eventi (concerti, eventi sportivi, teatro, ecc) ma impone di ripensarli completamente.
Una tendenza che era già presente provato dalla grande diffusione dei personal media, come gli smartphone, o anche delle piattaforme di intrattenimento differenti dalla tv tradizionale, come lo streaming, il gaming ed altro, aggiunto alla trasformazione della televisione. La moltiplicazione dei canali tv non è solo una questione di opportunità tecnologica, ma anche il segnale che le cose sono diverse. Un fenomeno che non è solo occidentale. Sono molto poche le terre emerse dove non trovereste una persona che gira con un telefonino in mano chiedendosi se c’è campo o meno!
I numeri dei programmi televisivi sono sempre più bassi, ad eccezione della serialità, il prodotto più narrativo, mentre i reality show vivono una crisi profonda che non si risolve nel loro moltiplicarsi o in realizzare dei cloni la cui differenza è solo il titolo – se va bene.
Allo stesso tempo ricerche di mercato dei più autorevoli istituti di analisi mondiali dimostrano che si sta sgonfiando la bolla degli influencer. Una recente ricerca IPSOS mostra come solo l’8% degli intervistati ritenga affidabili i loro giudizi e consigli. Addirittura molto meno della tanto vituperata classe politica. So che questo farà strabuzzare gli occhi a molti ma è un forte effetto della pandemia, visto che al primo posto della ricerca ci sono infermieri e medici. Come ho ripetuto molto spesso da questa pandemia noi ne usciremo cambiati, il che non è un bene o male, ma non saremo quelli di prima.
Torniamo alla questione principale. Il crollo della credibilità degli influencer dopo la loro diffusione esponenziale paga il non aver capito che non esiste una ricetta unica – una chimera in ogni settore. I personal media obbligano a cercare univocità del proprio profilo e soprattutto a studiare molto le personas – le figure retoriche che compiono il viaggio dei consumi – che non vogliono vedere cose tutte uguali. So che in termini pratici distruggo i sogni e le aspirazioni di molti che credono di diventare famosi in poco tempo, però fare tap su uno schermo è più facile che premere un bottone, gli smartphone in questo senso danno molto più potere del vecchio telecomando. Leggere La Mucca Viola di Seth Godin o gli altri marketer esperti in questo settore non farebbe male agli eserciti di aspiranti Kardashan o Ferragni. Sta mutando il concetto stesso di celebrity o VIP, termine usato solamente da reality nostrani.
Questi cambiamenti sono stati accompagnati alla volgarizzazione del mezzo televisivo e alla quasi scomparsa della televisione o della scienza. Sopravvivono – con ottimi risultati – in delle riserve indiane, delle zone protette dei canali televisivi, con personaggi come Alberto Angela e Mario Tozzi e non si sa perché non richiamavano più investimenti, ma sicuramente anche chi guida i network pensa sempre che la gente vuole questo oppure altri falsi miti che alcuni usano per giustificare le loro scelte. Dall’altra parte il mondo delle rete vede in forte crescita fenomeni di influencer come Alessandro Barbero o Paolo Nori, con lezioni di storia e letteratura russa! Le tecnologie dei podcast e della diffusione online permettono una maggior fruibilità di questi contenuti.
Pero nella stessa televisione, che troneggia nelle sale da pranzo di ogni famiglia, quando si presenta una crisi, come la pandemia ora, c’è la corsa ad una figura su cui si potrebbe scrivere una vera mitologia: l’esperto. Con la pandemia siamo arrivati alla guerra fra i virologi in tutto il mondo! Una lotta senza quartiere che ha invaso tutti i canali mediatici tradizionali, quelli interattivi, con un mare di dati. Sacrosanta la voglia ed il diritto della gente a voler informarsi, soprattutto per proteggersi dai pusher di fake news e dai covidiots e dai complottisti – categorie sempre più numerose – dei fautori dell’hate speech, che reclamano addirittura la libertà d’insulto e che hanno organizzato un loro social network, ma dobbiamo chiederci quanto siamo capaci di leggere questi dati o come ci vengono raccontati. Oggi tutti commento il dato sul fattore RT – non è abbreviazione di retweet – del virus ma quanti sanno cos’è davvero o lo ricordano? Siamo senza strumenti. Lo siamo perché, come accennavo prima, dagli anni ’90 ad oggi c’è stato sempre di più un allontanamento da certe categorie di contenuti che sono state poi viste come nocive alle dinamiche dei consumi e quindi demonizzate! Peccato che poi tutto il movimento del consumo consapevole nel mondo riguardo a certe categorie di prodotto ha invece aumentato la richiesta di contenuti sulla scienza e la cultura. La gente vuole sapere, ma questa richiesta o viene ignorata, oppure viene affrontata con sistemi vecchi. Forse dovremmo essere qui un po’ complottisti e pensare che affrontare il problema dello storytelling e della narrazione non conviene perché significa lavorare ed investire.
Questo problema non si esaurirà col finire della pandemia. Anzi! Quando il vaccino sarà messo a punto e distribuito – se ne parla almeno per la fine del 2021 per una normalizzazione della situazione – sicuramente ci sarà chi dirà che tanto ormai il peggio è passato e non è più il momento di pensare alle cose brutte. Non è la prima volta, è un leit motiv che si ripete. Non sto insinuando che dietro ci siano i cosiddetti poteri forti che vogliono tutti ignoranti, sono considerazioni che lascio ad altri. Piuttosto vedo una scarsa voglia di lavorare sui processi di narratività delle dinamiche del nostro tempo, consumi in primis. Però il sistema mediatico funziona grazie ai consumi, alla pubblicità e mi chiedo quante aziende si vorranno ancora far convincere ad investire cifre alte in dispositivi che davvero interessano sempre meno persone. Voi paghereste un’automobile che al massimo può fare pochi chilometri senza rompersi come se fosse una fuoriserie?
Anche gli investitori pubblicitari cominciano a differenziare i loro investimenti. A quel punto devono essere gli operatori dei media a capire che le cose cambiano e che forse farebbero a provare ad innovare e a pensare che le cose non cambiano mai.