BABY REINDEER: SU NETFLIX LE FERITE DELLO STALKER E DELLA “PICCOLA RENNA”

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Baby Reindeer, la serie Netflix, divenuta un fenomeno col passaparola, racconta la storia vera del comico e attore Richard Gadd, che crea e interpreta lo show in cui racconta di come una donna cominciò a invadere, e fondamentalmente stalkerare la sua vita.

Nella coinvolgente storia vera di Richard Gadd, emerge chiaramente come mettere per iscritto ciò che ha vissuto abbia contribuito al suo percorso di guarigione, consentendogli di trovare la pace interiore. Almeno lo speriamo. La vicenda del comico che è stato vittima di stalking da parte di una donna mentalmente instabile, da cui faticava ad allontanarsi, risuona in tutti noi. Gadd, che non solo ha vissuto questa esperienza ma ha anche deciso di crearne uno spettacolo, rivivendola sulla propria pelle, offre un’opera che va oltre la sua storia personale, toccando una dimensione universale che può coinvolgere tutti.

Se, come prima impressione, si può pensare che a riguardarci sia il discorso sulle attenzioni e su come la celebrità sia un falso obiettivo che serve solo a sentirsi bene con se stessi, Baby Reindeer scava in profondità, tralasciando ciò che ci si ostina a dire, con banalità, sui tempi di oggi e di come la costruzione del sé sia un’invenzione moderna dettata dai social media.

Già da prima, da tempo immemore, l’uomo ha voluto mettersi su un piedistallo. Ha trovato nelle rappresentazioni teatrali il modo di spiegare gli avvenimenti terreni, ultraterreni e umani, ma quando quel riconoscimento, quello status è diventato fama e ha posto una distanza tra chi stava sul palco e chi sotto, allora un altro mito si è andato creando generando l’avvento del successo. Successo che ha spesso coinciso con una maschera dietro a cui gli interpreti potevano nascondersi. Donny/Richard Gadd lo dice in Baby Reindeer: non volevo che vedessero me, volevo essere quello divertente, non lo sfigato di turno.

Il nascondersi dietro a una falsa-edificazione, una ri-edificazione, della propria persona è alla base dell’identità del protagonista di Baby Reindeer. E, ancor più, nello scoperchiare i meccanismi per cui cerchiamo di essere per gli altri un riflesso di ciò che desideriamo, non volendo rivelare altro. La vergogna – parola che a volte è incredibile addirittura pronunciare – è il sentimento comune con cui il racconto di Gadd accende il segnale d’allarme per ammettere che molte volte, per quanto si possa pensare di essere individui integri e realizzati, è soltanto questa a muoverci nella vita.

Per questo a domande come “perché lo hai fatto?” o “perché è successo?”, corrispondono spesso tre parole che fanno male, davvero male, e che sono sempre più comuni: “Non lo so”. Non lo so è l’espressione di una confusione che annebbia la testa e che fa procedere il protagonista e, fuori dallo schermo, le persone nei loro sbagli. E più gli sbagli aumentano, più non si sa bene cosa fare. Il punto di ebollizione, ovviamente, è sempre più vicino, però non è detto che si debba per forza scoppiare, anzi la questione è semmai implodere e scomparire.

Nonostante Baby Reindeer possa essere esaminato da innumerevoli prospettive, è proprio la sua autenticità, così vicina alla realtà, che colpisce per la sua capacità di essere più traumatico della finzione. La vergogna, intesa anche come estremizzazione di una timidezza sociopatica che trova in un certo narcisismo  l’unica soluzione – ahinoi – permea ogni momento del racconto, un terreno comune su cui il protagonista si muove in ogni svolta della sua storia. Proprio come se la cura fosse peggio della malattia.

Dal gesto di offrire un tè per compassione e poi vergognarsi per aver avvertito un senso di superiorità, al vedere quella stessa persona iniziare a dargli l’attenzione che nessun altro riesce a dare e sentirsi in colpa per desiderarlo. Dall’esperienza di sviluppare un attaccamento, una dipendenza da una situazione di sofferenza in cui però ci si sente protetti, al vergognarsi per aver interiorizzato la vergogna come conseguenza della mancanza di conformità agli standard sociali. E ancora, la vergogna di voler liberarsene e il senso di impotenza nel non riuscirci.

Intenso, dolorosamente vero e davvero ben narrato, Baby Reindeer tocca nel profondo lo spettatore. Attraverso le vicende di un aspirante comico, figura che, forse più dell’attore, si trova costantemente a confrontarsi con la maschera dietro cui nasconde il bisogno di approvazione, lo spettacolo offre uno sguardo compassionevole senza giudizio. Rivela la lotta interiore di un individuo in cerca di accettazione, intrappolato in una gabbia dove la propria autostima diventa merce di scambio per nutrire il sogno, ma allo stesso tempo nutre un profondo odio verso se stesso.

Trovare confortante la premura di una stalker non è follia, in questo caso. Diventa desiderio umano: essere visti non per quello che si è, ma per ciò che si vorrebbe. Non una condizione per tutti, ma di certo per chi è stato già mortificato. “Chi ti ha ferito, piccola renna?”, chiede Martha al protagonista Donny. Perché chi è stato ferito sa riconoscersi. E, il problema, è che sa anche dove infierire.

Mentre Baby Reindeer conduce a un’attenta riflessione sull’andare lentamente a pezzi, il pubblico non dovrà aver vissuto le esperienze di Donny/Richard per capire ciò che ha passato. Basterà ricordarsi di quella volta che non ha aperto bocca per l’imbarazzo provato, quando ha dovuto insultare qualcun altro per essere accettato, o quando sapeva di star facendo qualcosa di sbagliato, ma non si è comunque fermato. Quando vedrà la vergogna saprà riconoscerla, perché l’ha provata. E che non è mai facile fare il passo successivo, cercando di superarla.