Il titolo è un po’ sibillino, una sorta di gioco a nascondino, ma Wellmania è un prodotto interessante e di buon livello, che merita una visione attenta e che può scatenare anche un binge eating . Sicuramente una parola che sembra richiamare quella mania del wellness, del fitness, della mania di essere sempre all’altezza di ogni situazione, anzi, come direbbe l’inarrivabile Derek Zoolander, belli, belli, belli in modo assurdi. La sitcom, su Netflix, però, ha una storia, un casus belli, una questione di conflitto e non c’entra nulla con chili da perdere, casomai con una salute da migliorare, un presente ed un passato da affrontare ed anche un futuro da inventare. Sicuramente un prodotto che si inscrive nell’evoluzione della sitcom, genere davvero molto cambiato negli anni, che ha i suoi prodomi in Fleabag ed anche ad alcuni elementi, riguardo ai personaggi, di Sex & The City.
Liberamente ispirata al romanzo “Wellmania: Extreme Misadventures in the Search for Wellness” della giornalista australiana Brigid Delaney, Wellmania ha come protagonista Celeste Barber nei panni di Liv Healy, una scrittrice australiana di cucina trapiantata a New York che sa sicuramente come divertirsi, sebbene si ritrovi costretta a rivedere il suo stile di vita eccentrico fatto di vizi. E così, ritornata a casa, tra una seduta in palestra, e un articolo da scrivere, la donna capisce che dietro una dieta si ritrova molto più che il ritrovamento della propria forma fisica.
Gli otto episodi di durata media di mezz’ora della serie tv Netflix mostrano dunque il viaggio di Liv, che però non è mai da sola. Mentre cerca di tornare a New York per non perdere la sua grande occasione televisiva, viene ostacolata in tutti i modi e durante il suo cammino diverse figure le faranno da guida per farle finalmente superare la sua più grande paura: il fallimento. Oltre a questo, la vita di Liv in Wellmania è circondata da dei punti di riferimento che la aiuteranno nel suo percorso di riabilitazione forzata.
La nostra protagonista ha deciso di attraversare il mondo, tornare nella natia Australia, per andare al compleanno della sua migliore amica, però le rubano la Green Card ed il consolato americano non vuole concedergliene un’altra se non passa una visita medica. Assurdo? Questo perché non siete in un sistema di sanità quasi totalmente privata dove lo stato non vuole prendersi carico della vostra salute se non siete in salute e non importa se state per diventare il giudice di importante cooking show. Inizia il percorso di Liv, fra uno stile di vita sano ed i tentativo di mantenere alta la sua reputazione dall’altra parte del mondo, con il compito di scrivere una storia esclusiva. Si imbatte, così, in Camille (Miranda Otto), psicoguru che elargisce sapere a una schiera di donne insicure e incerte sul proprio corpo. Il compito di Liv è intervistare Camille che è apparentemente un libro aperto per tutti quanti, ma che racchiude in realtà un segreto che cambierà la visione di Liv. Da qui in poi la prospettiva di Liv cambia radicalmente. In questa seduta viene messa di fronte ai suoi demoni interiori, ammette di essere spaventata dal fallimento e fa i conti con i primi dei tanti attacchi di panico che si verificano nel corso di Wellmania. In particolare, lo spettatore inizia a vedere qualcosa in più sul suo passato relativo al giorno della morte del padre. Quel giorno è cruciale nella storia di Liv perché la sua mancata elaborazione l’ha cresciuta con l’idea di dover avere successo a tutti i costi nella sua vita.
È un patchwork tragi-comico, Wellmania: una commistione di momenti, eventi, passaggi, che rimandano ad altri mondi di natura televisiva, attraverso cui rivendicare paradossalmente la propria originalità. Nell’universo di Olivia Healy vive un po’ dell’After Life di Ricky Gervais oltre che al già citato Fleabag di Phoebe Waller-Bridge, soprattutto per quello slancio sadico e agrodolce con cui affrontare la realtà. Tutto viene suggerito, sussurrato, eppure quella mostrata sullo schermo è un’esistenza a parte, una vita talmente vicina a quella vissuta al di fuori della cornice televisiva, da credere all’essenza di ogni fotogramma. Sequenza dopo sequenza, ciò che si instaura tra spettatore e personaggi è un dialogo onesto, sincero, tra barlumi di esistenze verosimili e credibili; uno specchio liscio, luminoso pronto a riflettere sentimenti e umori, fragilità e (in)sicurezze universalmente condivisibili, e universalmente celati.
Celeste Barber nei panni di Olivia si fa perfetta portavoce di un incrocio generazionale, quella dei primi millennial e dei post-zillers, chiamati a puntare in alto, sempre di più, a tradurre in realtà i propri sogni barattandoli con una stabilità fisica, emotiva e psicologica sempre più fragile e malferma (non è un caso che il cognome della protagonista sia proprio Healy, che ricorda l’inglese Heal – guarire). Il ritorno a casa è una porta che si apre su quei traumi mai affrontati, ma solamente messi in pausa fra cocaina e gourmet oltreoceano. Basta mettere piedi su quella terra che l’ha vista nascere, crescere, soffrire tra elaborazioni del lutto mancate e responsabilità rimandate, che il cuore perde battiti, e il corpo cede. Un vero Burnout fisico ed esistenziale – speriamo che Rampelli non mi legga! Un personaggio davvero ben costruito sull’ironia come arma di difesa – che ricorda un certo cinema australiano di fine millennio – e una sensibilità che si rivela in un ritmo da ottovolante che davvero attira per la bella interpretazione della Barber.