Livio Senigalliesi: conversazione con gli occhi che hanno fotografato l’uomo e la guerra

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fotogrfia
Livio Senigalliesi Ritratto

Una fotografia è insieme una pseudopresenza e l’indicazione di un’assenza.” Mi piace iniziare con questa citazione di Susan Sontag una delle intellettuali più influenti del ‘900 e che sulla fotografia ha scritto pagine fondamentali. Incontrare Livio Senigalliesi,  in occasione della sua partecipazione al XIX CoriglianoCalabroFotografia a Corigliano-Rossano (www.coriglianocalabrofotografia.it/), è un grandissimo onore. Avere una conversazione con uno dei reporter di guerra più famosi al mondo pone non solo il purtroppo inevitabile focus sulla tragedia in Ucraina, ma anche un grande interrogativo: come si raccontano le storie di una guerra? Come si riesce a far uscire gli uomini, il loro vissuto, i loro sentimenti, da uno scatto?  Quel gran genio di McLuhan che molti fanno finta conoscere e di detestare perché ha compreso i media meglio di tantissimi altri, ha detto: “Fotografia, foto-grafia, significa scrivere con la luce. La fotografia, il cinema, conferiscono una specie di immortalità, una preminenza alle immagini e non alla vita reale.” La fotografia è una forma di rappresentazione è come sempre questo spaventa, nonostante noi come essere post-moderni siamo completamente immersi nel “fare” fotografia, da ben prima degli smartphone – chi ha un po’ di memoria dovrebbe ricordare le “macchinette” con solo un rullino, o prima ancora quelle semplificate di forma rettangolare. Perché? La funzione bardica è il concetto che esprime la necessita che ha una comunità di sentirsi raccontata nella sua interezza, nel suo essere davvero comunità. Però non basta.

 

Hanna Arendt

Credo che i racconti ci aiutino a dare senso alla nostra esperienza, ai nostri vissuti, a rileggere le nostre emozioni. Il racconto delle nostre esperienze definisce non solo chi siamo nel senso più riflessivo e profondo, ma ha anche una importante funzione sociale perché ci permette di comprendere e comunicare con gli altri, facilitando anche una lettura e una narrazione condivisa del mondo circostante. I racconti ci aiutano a ricordare, a riscrivere, ad esplorare il mondo, a definire valori, rileggere avvenimenti, attribuire un significato all’esperienza. La narrazione «rivela il significato di ciò che altrimenti rimarrebbe una sequenza intollerabile di eventi» (cit. Anna Arendt)

 

 

Il reportage di guerra che in realtà è sempre attuale. Come ci si prepara a realizzare la narrazione della guerra attraverso la fotografia?

Il lavoro inizia molto molto tempo prima di salire la scaletta di un aereo. È un lavoro di contatti e di tantissimo studio e preparazione. Perché per raccontare una guerra o una zona di crisi – io sono stato testimone del golpe di Mosca e della caduta del Muro di Berlino – bisogna arrivare molto prima degli eventi, essere ben introdotti, magari conoscere la lingua o avere un ottimo interprete, una guida fidata, sono cose che si costruiscono col tempo, magari anche con dei viaggi di conoscenza, dei sopralluoghi che ti permettono di avere comunque già delle basi.  Si deve essere in anticipo, proprio “prima della pioggia” (NDR film del regista macedone Milčo Mančevski vincitore del Leone d’Oro a Venezia 51). Il mio stile è sempre legato all’approfondimento. Oltre alla fotografia, io amo le storie e la storia. Prima di partire per un viaggio in un certo senso sono diventato uno specialista di certe aree geografiche, come per esempio il Medio Oriente, ai tempi della prima intifada, poi i Balcani, sono zone che mi appartengono. Ho vissuto 10 anni della mia vita nei Balcani, quindi tutto il disfacimento della Jugoslavia, dai primi avvenimenti fino all’ultimo atto della guerra in Kosovo. Alla fine, c’è molto di più di un reportage. Per raccontare una guerra c’è il racconto del vivere della gente, la conoscenza del contesto, fondamentale, raccontare le difficoltà di ogni giorno, non solo quella dei presidenti e capi di stato, come può essere quella fra Russa ed Ucraina, e quelle dei tantissimi altri paesi in guerra in questo momento. La mia è una ricerca con un taglio ed una prospettiva fortemente antropologica, non è mai un mordi e fuggì. Riguardo il muro di Berlino io arrivai lì nel 1988. Ero di casa a Berlino Est, sentivo che le aperture di Gorbaciov e la glasnost avrebbero creato qualcosa di importante. Per questo ero di casa anche a Mosca! Tutto questo mi ha sempre dato la possibilità di uno sguardo, una visione più ampia ed approfondita.

 

SARAJEVO / BOSNIA 1994
SARAJEVESI ATTRAVERSANO IL PERICOLOSO INCROCIO DI SKENDERIJA SOTTO IL TIRO DEI CECCHINI.
FOTO LIVIO SENIGALLIESI
SARAJEVO / BIH 1994
THE DANGEROUS CROSSROAD OF SKENDERIJA UNDER SNIPERS’ FIRE.
PHOTO LIVIO SENIGALLIESI

Da costruttore di narrazioni conosco la “fatica” che c’è anche solo per una parola. Per cogliere un momento c’è una forte preparazione dietro e soprattutto c’è, come ho letto in una tua intervista, l’importanza dell’empatia. Sono fortemente d’accordo, ma cosa vuol dire l’empatia nella fotografia?

Grazie per questa bella domanda. Torniamo al cuore del mio modo di vedere questo mestiere che va coniugato con l’umanità. Lo vediamo in tante foto, come quelle di Salgado ad esempio. C’è una profondità di pensiero, un rapporto con la gente che fotografi, che non sono dei personaggi ma persone con cui tu hai trascorso, magari settimane, mesi e quindi poi la fotografia viene come ultimo atto, l’atto in cui componi l’affresco. Tu sei quasi uno di loro alla fine! Mi è capitato tantissime volte, dai Balcani al Medioriente, ma anche in Ruanda. In queste situazioni, in questi paesi feriti e distrutti, dove si affronta ogni giorno la morte si è anche ferocemente feriti al cuore. La gente è muta e brancola come zombie perché ormai non hanno più niente, sono traumatizzati, non hanno più nessuno. Io mi ricordo nel cuore della giungla, dove c’è uno dei luoghi più tristi di quell’atroce genocidio ruandese del 94. Lì c’è chiesa dove sono stati massacrate 5000 persone. I cadaveri sono volutamente rimasti dove sono caduti, affinché nessuno dimentichi. Io ho conosciuto due dei sopravvissuti. Lì ci sono persone che hanno passato anni prima dire una parola. Quando ero lì osservavo i loro corpi col loro sguardo perso nel vuoto e talmente traumatizzati da tutto il male che avevano visto e non avevano mai superato.  Attesi una settimana in silenzio appoggiato per terra, mentre l’aria era piena dell’odore e della puzza dei tanti corpi bruciati ed ammuffiti. Io queste cose le racconto quando mi chiamano nelle scuole e nelle università, i miei libri sono usati a scopo didattico, e sono contento di essere prossimamente al Festival di Corigliano-Rossano per raccontarle. Le racconto per far capire il rispetto che dobbiamo dimostrare di fronte a tutto questo e mi chiedo sempre come si fa ad “assalire” queste persone, perché queste sono, persone, con domande del tipo “cosa è successo?” oppure “cosa ha visto?” o addirittura “lei sta soffrendo?”. È come un elefante che entra in una cristalleria. Pensalo in un genocidio dove sono morte un milione di persone come quello del Ruanda!

 

La tua è una critica verso un tipo di narrazione giornalistica?

Non voglio fare un raffronto critico su quello che sta succedendo fra Ucraina e Russia, però io trovo che certe cose vengano ingigantite. Ogni vita è importante e lo sappiamo, neanche bisogna dirlo. Ci siamo dimenticati, però, del Vietnam, della Cambogia, delle due guerre del Golfo – io sono state in tutte e due e solo per le conseguenze della prima sono morti quasi un milione di bambini – di Sarajevo, Srebrenica a Siria e dei tanti altri conflitti attivi in questo momento. Tutto viene enfatizzato in questo modo di raccontare in diretta e diventa superficiale con una informazione fatta di comunicati stampa. Non basta una pettorina ed un casco per raccontare. I giornalisti in Ucraina arrivano al massimo a oltre 20 km dal fronte, non arrivano mai in prima sulla linea. Io so di situazioni in cui i militati di entrambe le parti spostavano i cadaveri. E quando arrivano poi che racconto possono fare? A Sarajevo tutti noi ci sentivano facenti parte della comunità. Capisco sia difficile, lo so benissimo, ma a volte mi sembra un racconto schierato. Io mi chiedo se fra 10 anni uno studente dell’università, come succede, facesse una ricerca, una tesi basandosi su quello che resta del racconto mediatico, che tesi sarebbe visto che si racconta quasi sempre solo una parte e soprattutto non è quasi mai coadiuvata da un’osservazione sul terreno.

North Afghanistan, UN special forces.
Slhouette of military operation at sunset.
Photo by Livio Senigalliesi

Condivido la tua riflessione e me ne viene in mente un’altra conseguente, cioè il non voler raccontare la complessità. Tutto è aut-aut, tifo da stadio. Tutto viene semplificato in nome di una presunta verità più facile.

Esatto. Tutto viene semplificato per rendere la pillola più digeribile e diventa più facile la manipolazione. Certo facciamo i conti con i grandi signori della guerra che non sono solo da una parte. Troppo facile! Eschilo ha detto “La prima vittima della guerra è la diversità”. Dal Vietnam la fotografia è diventata un potentissimo mezzo di racconto e approfondimento che scuote il mondo. Penso alla bambina alla bambina con la pelle bruciata dal napalm. Giornalisti e fotografi hanno avuto la forza di influenzare grandissimi strati dell’opinione pubblica, penso ai movimenti per la pace in tutto il mondo. Italia compresa. Oggi la richiesta della pace è la grande assente. A parte la Perugia-Assisi non c’è stata mai una vera mobilitazione. C’è un continuo parlare di invio di armi e di sostenere quello o quell’altro. Si parla solo di escalation, nessuno propone una exit strategy, si parla di “vittoria o morte” come non fossimo in Europa ma nel “cuore di tenebra” del Congo. Tutto è diventato un videogame. Questo però non succede da ora. Pensa alla prima guerra del golfo, quando Peter Arnett mostrava di notte dal tetto di un albergo le scie dei missili che non si riuscivano a distinguere. Io e molti altri miei colleghi abbiamo visto nella stessa guerra migliaia e migliaia di soldati seppelliti vivi nella sabbia. Significa rischiare la vita? Anche! Nessuno ti obbliga a farlo però. Se lo fai devi farlo cercando le cose e preparandoti a cercarle, ad andare al di là del muro. Quando incontri la gente, quando incontri le storie, ti rendi conto che vogliono essere raccontate!

Tu sei autore anche di un progetto molto bello sugli ultimi, anzi sui “non visti”, dato che si chiamava UNSEEN, che parlava non solo della guerra guerreggiata, vero?

UNSEEN è un progetto realizzato nel 2018 con l’aiuto del Goethe Institute  che mi ha dato un supporto straordinario. Con loro  ho rapporto da quando ero a Berlino prima della caduta del muro. Pensa che proprio la mostra con le mie foto sulla caduta del muro è stato usato spesso come strumento didattico e portata in centinaia di sedi differenti. Tornando ad UNSEEN siamo partiti dalla forte consapevolezza

Susan Sontag

che che esistono situazioni estreme in tanti pezzi di mondo, Europa compresa, che la gente non immagina neanche. Fu un lavoro straordinario. Io sono riuscito ad andare in Bielorussa, in un pezzo della Bielorussia, con un visto non giornalistico fra l’altro. Io entrai in un pezzo di Russia. La Russia  è fisicamente Europa, ma ancora non lo è in altri sensi, ed era sul finire di una dittatura comunista. Fu un viaggio straordinario, fortemente antropologico e non giornalistico. Andai a fotografare una popolazione, i Palessiani, che nessuno prima di me aveva mai fotografato e filmato. Questa popolazione vive in Polesia una sorta di palude, la zona è geograficamente conosciuta  come “Paludi di Pinsk”, grande come la pianura padana e che si trova a Prypjat, una zona di confine fra Bielorussia ed Ucraina. Trovai una guida del posto i cui nonni erano nati lì, un posto dove la lingua parlata non ha nulla a che vedere col bielorusso e con il russo. Una lingua che si chiama Paleshuk e che si perde nella notte dei tempi. Ci arrivammo in alcune settimane sopra una canoa a remi grazie ad un barcaiolo che conosceva la zona, una macroregione praticamente ferma alla fine della seconda guerra mondiale! Non avevamo luce né telefono. Da Ottobre ad Aprile vivono in queste baite tipiche, bloccati là dentro dai metri di neve che si accumulano, mangiando quello che hanno raccolto durante l’estate. Non hanno alfabeto e la conservazione del sapere e della loro storia avviene via orale e grazie a dei canti ed è assolutamente matrilineare, di madre in figlia e avanti così. Fu in quella situazione che decisi di passare dalla fotografia al video. La raccolta del racconto, il racconto completo diventò la cosa più importante a quel punto. Il lavoro che ne venne fuori fece il giro d’Europa e tutti si stupivano che anche in Europa esistessero realtà di questo tipo. Io ho provato un emozione fortissima a vivere con loro, come loro, in queste baite. La partecipazione con loro è stata un’avventura bellissima, alla fine è sempre quello che contraddistingue il mio stile ma anche me come persona, la ricerca dell’uomo. Per molto  tempo l’ho fatto basandola sulla sofferenza, un po’ come dice Susan Sontag (NDR Susan Sontag, Davanti al dolore degli altri, 2003), però ci si può spingere alla ricerca dell’uomo al di fuori di certi schemi ripetitivi della modernità.

Una domanda obbligata: quanto conta la tecnica? E come si coniuga la tecnica con l’empatia

Conta tantissimo, perché è un mestiere serio e soprattutto di grande responsabilità. Io sono un autodidatta, vengo da una famiglia operaia dell’hinterland milanese, certi diciamo “vizi”, certi voli pindarici non te li potevi permettere. Io ho iniziato a fotografare tardi, dopo il servizio militare, la mia è stata una scelta matura per cui mi rendevo conto della responsabilità. Quindi mi sono basato soprattutto sulla qualità, che è un fattore che mi contraddistingue. Forte autocritica e grande ricerca della qualità e del pensiero che ci deve essere dietro ogni foto perché dietro ogni foto c’è un racconto. Io l’editing lo faccio in testa! Lo scatto singolo, fine a sé stesso non mi interessa, non mi interessa il bello banale, io cerco l’efficacia del racconto, la fotografia non come fatto estetico ma come fatto essenziale. Solamente questo per me è il moto necessario per portare avanti l’uomo.

A CoriglianoCalabroFotografia presenterai anche il tuo ultimo libro, che è un diario, vero?

Si, sono molto felice di presentare al festival Diario dal Fronte. È un libro che è stato adottato come in alcune università ed acquisito dal Tribunale Internazionale dell’Aja. È il risultato di un’autoproduzione, una scelta fortemente voluta, perché ho fatto ho trovato inaccettabili le condizioni di certi grossi editori che si erano fatti. Io ho fatto la scelta di mettere i miei lavori Internet perché non mi interessa stare su uno scaffale in terza fila. Internet mi permette di essere cercato da chi vuole cercarmi. È una mia scelta. Come quella di partecipare al film di Francesco Del Grosso, In Prima Linea, dove 13 reporter, fra cui io, raccontano la linea del fronte. Lui è partito dalla lettura del mio libro, si è reso conto del mondo di umanità e della grande indignazione che resta dentro un fotografo che lavora in prima linea. Io voglio che le storie di queste persone arrivino, per questo ho scritto questo libro, con umiltà e senso del dovere.

 

Cosa resta dopo questa conversazione? Moltissimo. Tanto materiale su cui riflettere riguardo la fotografia, il racconto come bisogno, ricerca e viaggio antropologico. Noi ci raccontiamo perché cerchiamo un senso? Anche. Ma lo facciamo perché siamo umani e soprattutto senzienti. Da soli ed in comunità. Tutto è narrazione, dai fenomeni cellulari, falla teorie delle stringhe della fisica più complessa, al grooming delle scimmie, al cucinare o mangiare insieme.  Quello a cui forse dovremmo prestare attenzione è quando diciamo “quello è verità”. Ogni racconto ha sempre un filtro, un “bardo”, e questo è anche il bello della narrazione.

*Questa conversazione è la versione estesa pubblicata sul Quotidiano del Sud. Non c’è stata nessuna censura da parte del giornale sia chiaro. Si tratta solo di un problema di spazio. Alla versione cartacea è stata dedicata una pagina intera, cosa rara su un quotidiano. Ne sono felice perché Livio Senigalliesi lo merita ma perché lo prendo come un segno di stima nei miei confronti da parte del giornale con cui ho il piacere di collaborare da qualche anno.

 

Se volete approfondire l’argomento della narrazione vi consiglio di partire da:

  • “L’istinto di narrare. Come le storie ci hanno reso umani” Jonathan Gottschall
  • “Immersi nelle storie. Il mestiere di raccontare nell’era di internet”  Frank Rose

 Però la mediografia è immensa, proprio perché vogliamo narrare e capire il senso per cui lo facciamo. Questo ci rende vivi.