EXPATS: LA KIDMAN A HONG KONG IN UN DRAMMA CHE COLPISCE

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Una tragedia, un mistero, una storia al femminile sullo sfondo della brulicante Hong Kong convergono in Expats, elegante serie limited di respiro internazionale da fine gennaio su Prime Video, prodotta e interpretata da Nicole Kidman. Non è facile raccontare il contesto. Li chiamano immigrati coi soldi. Sono gruppi di connazionali che si muovono al seguito di multinazionali, istituzioni internazionali e anche ONG, vivendo per periodi piuttosto lunghi in un paese straniero. E se il paese è in via di sviluppo tanto meglio: gli alti stipendi e il costo della vita più basso garantiscono un’esistenza molto al di sopra delle loro possibilità. Gli expats sono l’altra faccia dell’emigrazione. Rappresentano un’eccellenza della classe media e oltre: poliglotta, sofisticata, cosmopolita. Vivono in lussuosissimi quartieri residenziali, dotati di ogni comfort, spesso con governanti, domestici e massaggiatori locali al loro servizio. Parlano tra loro in inglese, mandano i figli nelle migliori scuole del paese, sono il più delle volte occidentali ma non di rado si trovano tra loro i cittadini dell’Oriente più istruito e privilegiato. Una delle caratteristiche degli expats è che a usare per primi questa denominazione sono loro, a ribadire una dimensione di gruppo estranea alla famiglia dei migranti economici. A sottolineare un sentimento di appartenenza che, come si è capito, tradisce un retaggio di classe. E in effetti costoro non solo abitano vicini, frequentano gli stessi posti, godono dei medesimi benefits e praticano passatempi simili, ma di norma rimangono anche ben separati dai locals (se non per godere dei loro servizi offerti a buon mercato). È un contesto che la miniserie diretta da Lulu Wang dimostra di conoscere molto bene. E del resto la regista e sceneggiatrice sarebbe il profilo ideale di un’expat. Cinese ma naturalizzata americana, la Wang è figlia di una curatrice editoriale e di un diplomatico stanziato in Unione Sovietica che emigra coi genitori negli Stati Uniti nel 1989, all’età di sei anni, crescendo a Miami. Un vissuto che riverbera nel bel lungometraggio d’esordio The Farewell – Una bugia buona. Un‘esperienza di contaminazione culturale, duttilità esistenziale e spaesamento sottotraccia, che ritroviamo anche nella serie prodotta e interpretata dalla Kidman, di cui è evidente il tocco cinematografico della Wang per come traduce il dato di una scrittura adattata e personale (sceneggiatura a quattro mani con Janice Y. K. Lee, autrice di The Expatriates da cui la serie è tratta) in eleganti figure visive.

Expats è ambientata a Hong Kong nel 2014, proprio durante il “movimento degli ombrelli gialli” che immobilizzò per 79 giorni il distretto finanziario della città. Gli attivisti chiedevano il suffragio universale, la Cina rispose con ulteriori chiusure. Non è un caso che Hong Kong sia tra i pochi posti al mondo a non poter vedere Expats. Anche se le tensioni internazionali non sono certo il dato politico fattuale della serie. Protagoniste della storia tre donne: Margaret (Nicole Kidman) e Hilary (Sarayu Blue) e Mercy (Ji-young Yoo), le cui vite si intrecciano in seguito ad un’improvvisa tragedia familiare. Qualche anno prima il figlio più piccolo di Margaret era sparito in Corea mentre era affidato a Mercy, che si era proposta come babysitter. Le tre donne si ritroveranno a Hong Kong. I temi, filtrati da una tormentata sensibilità femminile, sono tanti e ci parlano di maternità perduta e negata, di perdono e di colpa, di senso di rivalsa e di inadeguatezza.

Le vette della serie coincidono con il quinto, lunghissimo episodio incentrato sulle domestiche al servizio di una delle famiglie protagoniste, impersonate dalle ottime Ruby Ruiz e Amelyn Pardenilla. Una puntata dedicata a spogliare la serie della sofisticata patina che permea la realtà di Margaret e degli altri espatriati di classe alto-borghese. La loro visione della condizione di straniero è falsata dal privilegio e dalle differenze di classe, infatti Margaret e gli altri non sono davvero parte integrante della società della metropoli internazionale che li ospita. Fuoriuscita da quella bolla, abbandonato il lussuoso grattacielo dove vivono lei e Hilary (quasi una fortezza che le separa e protegge dal resto della città), la narrazione si sofferma su questo capitolo a sé stante che offre uno squarcio di vita sull’esistenza delle domestiche filippine, sulla loro esperienza ben più autentica, umana e cruda di lavoratrici in terra straniera. È l’episodio più coinvolgente e coeso, reso ancora più suggestivo da una co-protagonista silenziosa e onnipresente, la metropoli di Hong Kong.

Colonna portante dei sei episodi, quindi, è il discorso di classe, che cosa sia il privilegio e come si ripercuote sulle relazioni tra i personaggi. Gli uomini non sono un contorno: Clarke (Brian Tee) e David (Jack Huston), rispettivamente i mariti di Margaret e Hilary, hanno i loro fantasmi. Tutti questi personaggi compongono una cerchia coesa e lacerata insieme: la famiglia degli expats è come una gabbia dorata, costretta nella claustrofobia di luoghi caldi e confortevoli ma privi di aperture, in sostanza opprimenti. La Wang lavora decisamente bene sulla texture degli spazi, privilegiando colori saturi e focali medie e lunghe. E se le atmosfere rimangono gravide di non detto, i dialoghi invece sono pungenti, talvolta brutali. Danno una ritmica e una forma tangibile ai drammi più intimi che si dipanano al riparo dei nostri occhi.