The Jackal, Pesci Piccoli che crescono bene

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Si nasce e si cresce. E poi si muore come tutti i fenomeni. E come in tutte le cose ci sono gli aspetti belli e quelli brutti, e la rete, questo insieme di maremagnum in continua espansione, non è soltanto cronaca nera, ma vita quotidiana e creatività. Da Youtube sono partiti i The Jackal ed anche loro sono arrivati alla serialità televisiva, su Amazon che ha creduto che questo manipolo napoletano potesse essere molto di più di qualche gag e tormentone. Così è nato Pesci Piccoli che su Amazon Prime ha trovato spazio fra film italiani e serie straniere. Successo? Fallimento? Hanno esagerato? Non è roba per loro? Sicuramente qualcuno avrà qualcosa da dire contro, ma d’altronde è la famigerata “democrazia della rete” per cui, anche con le click farm, troverai sempre qualcuno disposte a parlare male di sua madre e financo di sé stesso e della sua immagine allo specchio. Ma di che parla Pesci Piccoli?
La serie inizia con una scena che fa ridere solo se non avete mai lavorato in un’agenzia di comunicazione: se ci avete lavorato, anche solo per un giorno, ho avete avuto a che fare col mondo della comunicazione pubblicitaria in senso professionale sapete che una fedele rappresentazione della realtà. Senza se e senza ma. C’è una riunione, tra i membri della sede centrale dell’agenzia Tree of Us e un cliente, testimonial per la prossima campagna pubblicitaria di un telefono. I professionisti dell’agenzia si presentano tutti con delle definizioni in “inglese comunichese”: art director, senior copy, color match analyst, junior assistant, content manager, andando avanti così ad libitum. D’altronde la nomenclatura estesa, chiamiamola così, ha ormai contagiato qualsiasi settore, basta andare anche un convegno sulla produzione di formaggere da tavola presuppone i suoi quindici esperti che debbono intervenire con tanto di slide durante un solo pomeriggio. Niente, però, che impressioni il testimonial, che è Achille Lauro. Anzi, lui propone un cambio nello spot, e ha un diverbio con la direttrice creativa – anzi, “creative director” – del progetto, che gli dà uno schiaffo. Risultato: Greta, il nome della direttrice creativa, viene mandata via dalla sede centrale e “mobbizzata” con una falsa promozione che consiste nel nominarla direttrice creativa di un’altra sede di Tree of Us. Una sede periferica, provinciale, dove l’agenzia non ha grossi clienti, ma appunto “pesci piccoli”. E dove Greta conosce i suoi nuovi colleghi. Lavorare nel mondo della comunicazione oggi equivale, quasi sempre, a scendere a patti con il diavolo. Le call, i pitch, i claim, i concept: esiste un girone dell’inferno, probabilmente, per chi spera “che questa mail ti trovi bene”. Pesci Piccoli ironizza sulle vite di un gruppo di giovani creativi di un’agenzia di provincia che devono accontentare, appunto, i pesci piccoli dell’industria, dall’azienda locale di parquet a quella delle merendine. I protagonisti sono Fabio Balsamo, Gianluca Fru, Aurora Leone e Ciro Priello che non a caso mantengono i loro nomi originali per i loro personaggi (quasi a voler indicare che la vita nel luminoso ufficio napoletano, centralissimo, dei The Jackal non è poi così diversa da quella provinciale della filiale sette della Tree of Us di Pesci Piccoli). Quando, dopo un incidente in sede centrale, arriva la manager declassata Greta (Martina Tinnirello), gli equilibri della piccola filiale dove “in 40 minuti sei al centro” vengono sconvolti.

Il risultato è una comedy coerente perché sa intrecciare diverse storyline, imparando la lezione da serie come Community, condendole con spassose gag mai fini a se stesse ma sempre funzionali al racconto e allo sviluppo dei personaggi (la dinamica Fru contro l’hater delle merendine dell’episodio 3 scioglie il cuore). Le stesse guest star coinvolte (dal già citato Achille Lauro a Herbert Ballerina fino a Giovanni Muciaccia) non rubano mai la scena, anzi danno quel tocco in più che riconosciamo come cifra stilistica assolutamente The Jackal.

Con Pesci Piccoli, The Jackal dimostrano di essere semplicemente dei fuoriclasse, nel senso reale del termine. Sono stati i primi, ormai più di dieci anni fa, a dettare un nuovo modo di fare intrattenimento partendo da YouTube. Per arrivare a questo risultato hanno fatto la sola cosa che bisognava fare: sperimentare; capire cosa piace al pubblico, anche sbagliare e rialzarsi; dalle web serie Gay ingenui, Vrenzole e Gli effetti di Gomorra sulla gente, passando per l’assurda comicità spaziale di Addio fottuti musi verdi. Qui hanno trovato un equilibrio ammirevole da cui traspare entusiasmo, dedizione e grande spirito di gruppo.

Tuttavia, Pesci piccoli, titolo molto efficace, sembra cercare continuamente una via, come si evince perfettamente nel quarto episodio, quando improvvisamente la serie si autodenuncia debitrice a The Office, nella forma (le interviste, la camera a mano, l’impronta del mockumentary), nel contenitore (un ambiente di lavoro), nei personaggi (infantili fino al cinismo, eccentrici nella loro ordinarietà). E quando è la stessa Aurore Leone (vera rivoluzione della serie), proprio in quell’episodio, a fare una tirata contro la copia spacciata per citazione, ci chiediamo se Pesci piccoli voglia essere un omaggio da fan, un trattato per cultori, un atlante citazionista, il tentativo di trovare una cifra più compatta e propria (che è uno stallo tipico delle prime stagioni delle comedy americane, tra l’altro). Il divertimento è fuor di dubbio, il ritmo incalza, la voce di Fru che fa da voice over presente e visibile è un’idea che funziona come la commistione con elementi più malinconici regge insieme ad un repertorio musicale indovinato. Ma i pesci piccoli possono e devono crescere. E cresceranno. Aspettiamo la seconda.