So che può sembra il titolo di un B-Movie horror a sfondo comunicazione e marketing, ma mi interessava continuava il discorso cominciato nel post precedente come organismo vivente. Ok. Ma se è vivente deve mangiare, vero? Certo! E di che si nutre un brand? Di persone naturalmente, altrimenti che horror sarebbe! Anzi per meglio dire di Ambassador.
Proprio di recente mi è capitato di leggere una riflessione sul tema dei brand ambassador da parte di Jeff Bullas (nella foto), uno dei grandi marketer guru della rete, ed ho trovato degli spunti che mi hanno fatto riflettere. Dobbiamo capire che oggi la dimensione del “cliente” come semplice acquirente è davvero sorpassata. I meccanismi dei social hanno portato la creazione di vere e proprie community. Siamo abituati a questo discorso per i grandi marchi internazionali, ma in realtà questo vale anche per realtà locali ed iperlocali! Basterebbe dare un’occhiata alle pagine Facebook ed Instagram che qualsiasi artigiano, ristorante, negozio ed attività si crea. Si crea e lascia lì. A morire.
Gli ambassador sono una vera e propria cura di steroidi per un brand, a qualsiasi livelli, ma vanno curati. Un brand si nutre di ambassador, come abbiamo detto nel solco dello scherzo sul film horror. Però sono gli stessi ambassador a dover essere nutriti!
Bullas dice che una community per un brand ha l’effetto di una cura di steroidi. Vero, però anche lui è d’accordo che il legame va costruito, innescato, nutrito.
I social stanno diventando dei cimiteri di Pagine dove si accumulano Like, quando va bene, e poi finisce lì. Lentamente cala il silenzio, come fosse la via principale dove due pistoleri si devono affrontare per un duello. Un duello che non avviene mai.
Il brand si nutre delle attività degli ambassador, ma se non li stimola perché mai gli ambassador dovrebbe andare da lui. Il modello è circolare, un do ut des latino. Però se io non vengo attirato, stimolato, chiamato, perché mai dovrei tornare da te.
Servono gli influencer! Questa è la risposta più comune.
Gli influecer costano! Questa è l’obiezione più comune.
Pensare che esiste alcuni sito di settore dove si trovano le quotazioni degli influencer. Però non è detto che servono a tutti i costi gli influencer al livello della Ferragni, che nel tempo si è costruita con intelligenza la sua posizione, per coltivare la community.
Bullas ricorda un caso che chi come era bambino negli anni ’80 conosce: le presentatrici Avon. La casa di cosmetici faceva diventare proprie promoter le sue clienti più affezionati. Un modello che ha funzionato a lungo per molti anni. Naturalmente poi le cose sono cambiate. Eppure il titolare di un’attività, qualunque essa sia, deve capire che per avere un brand attivo occorre investire, ma investire in maniera intelligente! Oltre al cimitero delle community vede anche pagine FB veramente gestite senza interazione e senza creatività. Non saranno i like a generare l’engagement!
Diventare un brand ambassador è spesso casuale per molti consumatori che nell’era digitale di oggi, hanno l’istinto naturale a curare e condividere le proprie esperienze. Spetta al titolare del brand decidere come investire nella sua attività con i contenuti creativi e visivi. Naturalmente ben fatti.
Il compito del marketer è quindi aiutarli a trovare altri come loro, offrendo loro una piattaforma in cui le loro esigenze sono poste in primo piano e al centro. Con i consumatori di oggi più inclini che mai a collaborare, non puoi permetterti di non avere la loro voce progettata in ogni fase delle funzioni della tua azienda.
Voglio chiudere con una parola chiave per sostenere questo processo:RICONOSCIMENTO.
Gli ambrassador vogliono sentirsi partecipi della community del brand e vogliono sentirsi riconosciuti, quindi vanno pensate delle azioni promozionali che riescano ad attivare in maniera forte e sensibile la condivisione.
Qualcuno dirà: Altrimenti?
Altrimenti potresti essere un altro nome su una lapide delle community morte. Di questi tempo non è il caso.