Difficile davvero dire cos’è il jazz. Non è semplicemente musica come molti possono pensare. Quando senti qualcuno dice a me non piace il jazz la prima cosa che penso è “mi spiace per te”. Amare il jazz non significare ascoltare solo quello e lo dice una persona che ama da Satie ai Nine Inch Nails. Però il jazz è fatto di storie che meravigliosamente e dannatamente si annodano e si rigirano a formare sempre cose nuove. Il jazz è quantistico, fa dei salti fino a “formare” creature nuove. Ho avuto l’onore e di intervistare John Patitucci, mito del basso, uno dei più grandi di tutti i tempi. Ringrazio per questo Sergio Gimignani – che avevo intervistato qualche tempo prima – e Francesca Panebianco per tutto quello che fanno con il Peperoncino Jazz Festival.
“Se ci sono più di tre accordi, è jazz.” A dire questa frase è uno dei più grandi musicisti rock della storia, Lou Reed. Uno dei miei preferiti. Nato a New York come un altro grande mito del jazz che ho avuto l’onore di intervistare: John Patitucci. Anche lui di New York. Patitucci è una di quelle leggende viventi del jazz, bassista e contrabbassista di una bravura a dir poco straordinaria. Non basta. Perché come tutti i maestri lui riesce ad emozionare con il suo girovagare ed alambiccare sulle note fino allo stupore e alla sorpresa. La stessa emozione che sento io mentre mi avvicino a lui dopo che ha fatto il soundcheck per la serata di apertura di questa edizione del Peperoncino Jazz Festival.
Che sensazione si prova a tornare a suonare dal vivo dopo lo stop dovuto alle restrizioni del Covid?
L’emozione è incredibile, quasi indescrivibile. Per noi musicisti, ma per tutti quelli che lavorano e vivono nel mondo dello spettacolo, la dimensione live è la vera dimensione del nostro mestiere, della musica. Ricominciare ad andare in tour è stato qualcosa che mi ha riempito di gioia ed emozione come fossi alle mie prime esperienze. Poi essere qui, in un posto così bello, con l’accoglienza della gente che ti sostiene, che ti “abbraccia” e crea quel feeling meraviglioso è qualcosa di incredibile.
So che le tue origini, i tuoi nonni erano di Torano Castello, qui della provincia di Cosenza. Com’è il tuo rapporto con la Calabria?
Io sono molto orgoglioso di essere calabrese e amo questa terra. (A questa domanda John risponde in un italiano tipicamente e splendidamente “maccheronico”, volendo sottolineare il legame con questi luoghi). Per me è sempre emozionante venire in Italia ma soprattutto proprio qui in Calabria da dove sono partiti i miei nonni, dove ho le mie radici, le mie origini. Le sento soprattutto nel contatto con la gente.
Com’è il tuo rapporto con la musica?
E’ una domanda complessa a cui quasi non so dare una risposta precisa. La musica per me è qualcosa di naturale, come respirare o mangiare. Credo di sentire, di provare la musica, come emozione e sentimento in ogni cosa che faccio, in come mi esprimo. Non è solo un linguaggio o un’arte, lo sento come un modo di vivere e quindi lo sento in tutte le cose che faccio.
Come vedi il jazz oggi e nel futuro. Pensi stia cambiando?
La musica e in particolare il jazz è in continua evoluzione. Non si ferma mai. Anche quando si suona uno standard (tema musicale sul quale si improvvisa) ogni musicista aggiunge qualcosa di nuovo, di suo.
Quali sono gli artisti che più di tutti hanno ti hanno influenzato come musicista e come artista?
Io sono stato fortunato perché ho potuto crescere e suonare con dei veri maestri della musica. Certamente non posso dimenticare Chick Corea che mi ha voluta nella sua Electric Band. Chick per me è ancora un musicista irraggiungibile nel mondo del jazz, come tecnica, intelligenza e passione. Poi certamente Herbie (Herbie Hancock), che era davvero genialità. Ultimo, ma non ultimo, (“the last but not the last the least” tipica locuzione inglese) Wayne (Wayne Shorter). Lui è stato un maestro, ma soprattutto l’ho sempre sentito come un secondo padre, una guida che mi dava anche dei consigli su come portare avanti la vita.
Quali sono le cose più importanti nella vita per te?
La musica sicuramente, ma non c’è solamente lei al primo posto. C’è la mia famiglia, mia moglie ed i miei figli, i miei fratelli e sorelle. E c’è la mia fede, il mio essere cristiano, che mi ha aiutato tantissimo negli ultimi anni, sia nei momenti più dolorosi sia nel mio essere musicista. La mia fede fa parte del mio essere uomo. La musica è qualcosa di totalizzante, che può prenderti tutto lo spazio. La fede mi ha dato un modo di vedere quali sono le cose più importanti, quelle che contano. Mi piace essere membro della mia chiesa e lavorare con i membri della mia comunità che sento come una famiglia. Queste sono le cose che contano per me e che mi danno la forza anche quando sono in tour e mi manca la mia famiglia. Ma a chi non mancherebbe?
John Patitucci con sulle spalle il suo basso nella custodia ha un sorriso di una trasparenza disarmante, uno sguardo che sembra fatto di cristallo e vibrazioni positive. Mostra una serenità sincera e contagiosa che spesso molte persone non riconoscono nei musicisti e nelle persone dello spettacolo. Allarga il sorriso quindi gli chiedo una foto insieme – sono pur sempre un fan! E quella serenità c’è anche negli accordi e nelle meravigliose invenzioni che durante la serata regalerà insieme ai due “fratelli musicisti”, Chris Potter e Brian Blade, sul palco allestito nel Quadrato Compagna di Corigliano-Rossano. La stessa sincerità che metterà nell’osservare un minuto di silenzio per dolorosa e tragica scomparsa dei due giovani Altea e Raffaele, insieme all’assessore Tiziano Caudullo, a Sergio Gimignano e Francesco Panebianco, splendida coppia nel lavoro e nella vita nel portare avanti il Peperoncino Jazz Festival, alla Pro Loco di Corigliano che si occupava della sicurezza e a tutti quelli che erano lì. Insieme.