Roland Barthes, il grande semiologo francese ed intellettuale, uno di quelli che più di tutti ha influenzato gli ultimi 50 anni di pensiero, anche in maniera inconsapevole dell’intero Occidente – me compreso ma in maniera consapevole – ne L’Impero dei Segni parla del suo amore per il Giappone e soprattutto dell’invidia per le loro tradizioni nel non aver bisogno di così tante parole per esprimersi, ma nel ridurre tutto al minor numero possibile, e soprattutto essenziale di espressioni. Satori è un concetto introducibile. Per noi potrebbe essere detto come “illuminazione”, eppure è così immanente e presente nella vita secondo lo zen che non è mai così esclusivo. Un concetto che mi ha sempre incredibilmente affascinato tanto da tatuarmi il suo simbolo sull’avambraccio sinistro. Perchè?
“Se respiri, stai danzando” è il libro di Annamaria Gyoetsu Epifania, ballerina, monaca zen, che è stata la mia prima insegnante di Tai chi e qi-gong a Roma. Un libro importante perché mi ha riportato al fatto che noi diamo per scontato il respiro, ma non sappiamo respirare. Non è uno scherzo. Io ho dovuto farlo dopo la scoperta del tumore maligno al cervello.
Quante volte usiamo l’espressione “sono rimasto/a senza fiato” come per indicare sorpresa. Io credo di essere rimasto senza fiato quando ho saputo che il mio cervello, che ho sempre creduto essere la cosa migliore e più importante che possedevo, era malato. Non lo so fino in fondo visto che la malattia mi ha portato un’amnesia per la quale molti ricordi sono stati cancellati. Senza dubbio è stato sia per una difesa sia per un danno neuro-psichiatrico. Un tumore non comune che già stava cominciando a metastasizzare. Dopo chemio, radio, 11 ore di operazione, mesi e mesi di ospedale e riabilitazione, visto che dopo aver dimenticato il passato, avevo anche dimenticato per breve tempo chi fossi e come si parlasse. Credo di aver dimenticato anche come si respirasse mentre ero in terapia intensiva dopo l’operazione. Quello che ricordo bene e l’aver scoperto di esser cresciuto sin da molto piccolo con un idrocefalo ed oggi con un disturbo bipolare e con le conseguenze del tumore. Ho vissuto un periodo in preda all’odio e alla rabbia. Verso me stesso, verso il mondo e verso l’amore di chi mi amava. Respiravo. Respiravo per sopravvivere e non per vivere. C’è un universo enorme di differenza in questo.
“La gioia della danza è intuire che vi sia un mondo che ci appartiene e che non siamo destinati a subire.”
“Non c’è nessuno che danza,
è la danza stessa che danza.
Non c’è nessuno che è seduto in zazen,
è zazen stesso che fa zazen.
Non c’è nessun ego da foraggiare,
vi è solo il Sé che fa stesso ed è tutto ciò che c’è.”
Questi due passaggi del libro, che è un insieme di scritti e pensieri che Gyoetsu, che di cognome fa Epifania, e non mi sembra casuale, perché nulla nella vita accade per caso, anche se non voglio che questo scateni un dibattuto sulla presenza o meno di un’intelligenza ordinatrice negli universi, sono quelli che più amo del libro.
Barthes dice : “Nello haiku (forma di poesia dello zen giapponese) la parsimonia di linguaggio è oggetto d’una cura che a noi pare inconcepibile, perché non si tratta tanto di essere concisi (cioè di restringere il significante senza diminuire l’intensità del significato), quanto, al contrario, di agire sulle radici stesse del senso, per ottenere che questo senso non si diffonda, non si interiorizzi, non si faccia implicito, non si liberi, non vaghi nell’infinito della metafora, nella sfera del simbolo. ”
Quando ho incontrato lo yoga Kundalini durante la mia vita ho capito quanto la pratica yoga sia stata una delle cose che più di tutti mi ha aiutato a riconquistare la vita. Lo yoga è attenzione, radicamento, respiro. Attenzione a capire che il silenzio che la maggior parte di noi anela come tranquillità non è altrove se non in noi stessi, radicamento nel corpo e non nella ricerca di un’estraneità lontana, respiro per vivere. Anzi respiro è vivere. E’ danzare e fare ogni azione della nostra vita che ci approntiamo a fare, dalla spesa alla danza.
Questo libro diviene così un upaya, cioè uno strumento di ricerca verso una dimensione di ritualità, che nello zen non è mai stanza e senza significato, ma diviene senso come direbbe Roland Barthes. L’unica via alla fine si impara respirando, un sentiero difficile da imparare ma non impossibile, parlo per esperienza personale, che non so se risolve, perché non se esiste qualcosa che può essere definito “risoluzione”, ma ci permette di affrontare l’unica vera dimensione che esiste in questo nostro lungo respirare: il cambiamento. Non esiste un’instante uguale all’altro, non esiste forza senza fragilità, e non esiste buio senza luce. Ho imparato che posso e so ancora scrivere, forse anche meglio di prima, ho imparato anche che posso essere libero scontando anche giorni di prigionia nella mia mente, che ancora spesso si rifugia in una razionalità sterile, il che non vuol dire abbondare la ragione. Quello che è importante e che “conviene” fare, uso questa parola anche nella sua accezione occidentale, è abbandonarsi al respiro, abbandonarsi a se stessi. In questo modo ho scoperto le cose importanti e le cose per cui vale la pena anche lottare.
Buona lettura, lenta, lunga e profonda come un respiro.