Una conversazione a tre con regista Chiara Calligari, l’interprete Rossella Pugliese e l’autore/attore Angelo Colosimo, de La Salvazione
per la prima nazionale al Campania Teatro Festival
«LE PAROLE sono le mani per le cose a cui non puoi arrivare dice Sanguineti e quando penso all’uso del dialetto a teatro penso a delle mani con i calli, con una presa forte».
Mi rimane impressa questa frase di Angelo Colosimo, attore, autore e regista calabrese, che incontro proprio alla viglia della prima nazionale del suo nuovo spettacolo, La Salvazione, che debutterà al Campania Teatro Festival, nel giardino paesaggistico di Porta Miano di Capodimonte oggi. Siamo nel 1956, l’anno del boom il pensiero di un futuro migliore e il rock iniziano ad insinuarsi tra le nuove generazioni e le lotte contadine per appropriarsi delle terre incolte sono all’ordine del giorno anche in Calabria. In un piccolo paesino, un giovane di famiglia contadina, spinto dalla voglia di cambiamento tenta la strada della ribellione per migliorare le sue condizioni e quelle dei suoi cari. Lo scontro generazionale porterà ad una escalation di tensione contro i poteri locali Siamo in una conversazione collettiva insieme a Chiara Callegari, diplomata alla prestigiosa Paolo Grassi di Milano, che è regista della pièce, e Rossella Pugliese, giovane attrice che ha un curriculum di collaborazioni molto importante con nomi del calibro di Ettore Scola ed Emma Dante fra gli altri. L’unico che manca è il giovane talentuoso Salvatore Alfano. Nel cast c’è anche, naturalmente Angelo Colosimo. Mi piace il fatto che un’intervista si sia trasformata in un insieme di spunti importanti.
«Il teatro è vita. Io sono molto felice di questo testo, di come è stato concepito, anche perché purtroppo non è comune nel teatro italiano scrivere parti per una donna come ha fatto Angelo». Quando Colosimo parla del teatro insiste su un teatro civile, della sua voglia di poter raccontare una poetica personale ma che parli delle persone e per le persone. «Raccontare un mondo bistrattato che è quello della mia Calabria in questo caso, della mia terra, mi offre un’enorme varietà di spunti, cercando sempre di andare ad essere comprensibile ed in relazione per e con tutti. Per fare questo ed uso la drammaturgia ed il dialetto come un musicista usa un pianoforte: strumento e non fine ultimo».
Precedentemente Angelo è stato autore e protagonista di una trilogia di monologhi, detta da lui, delle bestie rare e degli istinti recitata in dialetto e che ha avuto un ottimo successo. Il dialetto è una vera lingua che lui ha “lavorato” con John Trumper, il famoso linguista, oggi ordinario dell’Unical, che conosco bene per alcuni suoi lavori come Male Lingue, un testo sui codice ed i linguaggi della ‘ndragheta.
Sorride Chiara che condivide, da veneta, la sfida del dialetto, ma anche la visione del teatro detta prima dai suoi “compagni di viaggio”. «La pandemia ha messo in luce la troppa autoreferenzialità del teatro italiano. Angelo quando scrive, io quando penso alla scena e alla regia, Rossella quando si muove sul palco abbiamo tutti un obiettivo: arrivare allo spettatore, arrivare altro!» Chiara mi parla non sono solo dell’importanza del dialetto come costruzione della corporeità della scena e dell’azione, ma di come si realizzi una scenografia sonora, con il sobbollire delle pentole in sottofondo. «Io ho lavorato per mostrare la crudeltà che c’è nei rapporti umani sotto la copertura iniziale, qualcosa che conosciamo tutti, per farlo ho creato una visione che mostri la forza e la violenza degli istinti che le persone hanno dentro». Nonostante il segnale di linea non sia ottimo si percepisce la forza e la decisione di questa regista. «Quando Angelo Colosimo mi ha presentato il testo una delle prime reazione, al di là della valutazione è stata “io sono del Veneto”. Allora perché io? Questo è stato un incontro secondo me molto interessante, perché io porto lo sguardo non solo della donna in un testo scritto da un uomo, ma anche di una non-calabrese. In un testo scritto in calabrese. Certamente sarebbe stata la cosa più scontata dare la regia ad una persona calabrese e quindi mi sono chiesta “che cosa posso portare io di nuovo in questo, in questo lavoro?” Mi interessava uscire dalla dimensione puramente regionale e anche storica ed affronta delle tematiche che non sono legate ad un passato più o meno lontano, ma sono fortemente attuali, e questo è fortemente presente nel testo. Il tentativo, quindi, che è stato fatto proprio nella messa in scena è quello di attualizzare, non mettendo costumi contemporanei o ma proprio scegliendo che rispettasse il il testo nella sua cornice storica, ma allo stesso tempo accendesse quelli che sono i rimandi al contemporaneo, ad esempio la tematica della lotta per per ottenere i propri diritti del femminile che ne emerge quasi come una tematica predominante per cui è la donna in realtà risolve tutto con un sacrificio La mia intenzione, la nostra intenzione, è partire da un testo scritto e ambientato negli anni 50 in Calabria per aprire in realtà una riflessione che si sposta molto più sul contemporaneo.»
«Quando io ho pensato allo spettacolo l’ho scritto proprio pensato alla recitazione, alla forza che mette Rossella nelle sue performance», mi dice Angelo ricordando che sono anni che la conosce e come condivida con lei un background e una visione del teatro. Un teatro che non deve mettere paura sottolinea Rossella, continuando nell’affermare come a volte ci sia un a distanza troppo grande fra il teatro e le persone e di come venga visto o come noioso o come qualcosa che faccia paura. Rossella racconta come è stato affrontare il personaggio di Carmela ed il dialetto. «Sicuramente io sul palco non porto solo la parola, ma il corpo col suo movimento. La parola e il movimento mi viene mai solo e soltanto dal significato, ma anche viene traslato nel movimento. Sono sempre felice di lavorare col dialetto e il lavoro anche, soprattutto quello che ha fatto chiara e il fatto quello proprio di trasformare in materia le parole, in cose che riuscivo a vedere e riuscivo a toccare. Proprio la nozione che doveva emergere ed arrivare al pubblico perché di base stiamo lavorando veramente più sul togliere con l’essenziale, cercando di portare alla luce le poche cose che avevano anche allora le persone in quegli anni. Sono felicissima di questo lavoro e di come è stato trattato il testo ed è anche di come risalta il mio personaggio.
Mentre li saluto non posso non ricordare una frase proprio di Paolo Grassi, straordinario uomo di teatro: «Il teatro per la sua intrinseca sostanza è fra le arti la più idonea a parlare direttamente al cuore e alla sensibilità della collettività». Questi ragazzi ci stanno riuscendo.