C’è un grande assente nel nuovo film di Inarritu, Birdman, un’assenza che fa tanto rumore. Però c’è anche tanta musica. La prima nota, che suona come una sinfonia è l’interpretazione di Micheal Keaton, il migliore di tutto il cast, che lavora davvero bene in ogni interprete, da Edward Norton ad Emma Stone. La regia, con un lunghissimo piano sequenza, fatto di macchina a mano, steadycam, con cambi di inquadratura che sono un piacere per gli occhi di ogni amante del cinema che non sia solamente storia. I dialoghi e soprattutto i monologhi, ben curati, soprattutto nei dettagli. Però, questo film non è un capolavoro, anche se ve lo diranno, anche se lo leggerete, non lo è. Almeno per me. Perché il rumore lo fa l’assenza di Guillermo Arriaga.
Mentre Inarritu inanellava copertine e premi nel mondo per i suoi film dopo Babel si consumava una rottura: lo sceneggiatore storico del regista messicano prendeva una sua strada e se ne separava, secondo alcuni sbattendo la porta. Certo la coppia ha dato parecchio al cinema, dal primo sorprendente e bellissimo, Amores Perros del 2000, passando per 21 grammi e Babel, rispettivamente del 2003 e del 2006. Inarritu ha avuto la fortuna di lavorare con attori di grandissima bravura, come il trio Del Toro, Penn, Watts di 21 Grammi, e molti altri, come è successo in questo film, professionisti che mettono anche il loro nella realizzazione di un film. Qui però andiamo ancora una volta in una questione epocale per il cinema, ma anche per tutto l’audiovisivo in generale: di chi è davvero il merito di un film?
Non è secondario, perché in Birdman, nonostante sia un ottimo film, ci sono delle strane e, non solo, apparenti contraddizioni. Lo stesso regista lo dichiara come un film contro la hollywood dei blockbuster e dei film in costume da supereroe, tanto che intelligentemente prende il primo Batman come protagonista e ne fa quasi una sorta di alter-biografia. Nel film il personaggio Riggan (Micheal Keaton) ha interpretato tre volte Birdman, ma non sappiamo se lui sia davvero Birdman oppure lo sia diventato, vista la capacità di muovere gli oggetti e di parlare con una voce fuori campo, una sorta di coscienza del supereroe, rendendo così evidente una confusione dei ruoli della società post-pop. Certo si spinge molto oltre, come a dire che lui ha molto più talento della “scatola di latta”, allusione ad Iron Man e a Robert Downey Jr. – cosa per me non vera. C’è anche un’incomprensione della contemporaneità sostenuta da una critica feroce ai social network, cosa sempre più presente nell’industria dei media, ma gli stessi media oramai si nutrono delle social communities, sembra quasi che vorrebbero una rivolta stessa degli utenti social contro se stessi. Solo un’operazione di facciata, perché sono terrorizzati dalla prospettiva di diventare anonimi nel senso di senza attenzioni.
Hollywood sembra non saper rinunciare a sé stessa e perché dovrebbe farlo vorremmo chiedere a Inarritu. Perché la “fabbrica dei sogni” dovrebbe essere altro da sé? Un tema che però non sembra appassionare Inarritu, visto anche il trattamento che riserva al personaggio della critica teatrale del NY Times, che è pronta a distruggere lo spettacolo di Riggan, una riduzione teatrale di “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore” di Raymond Carver, anche senza averlo visto. Ha più forza l’attacco contro una certa intellighenzia intellettuale che contro Hollywood!
C’è un finale tutto da indagare, proprio Riggan sostituisce la pistola con cui dovrebbe uccidersi in scena, con una vera e si spara in scena. Non muore. Il proiettile scivola e Riggan si ritrova con un naso nuovo, una faccia diversa, pronto per saltare e diventare il suo personaggio. Un finale che convince a metà. Resta davvero un buon film, anche grazie a Edward Norton, che quest’anno è nei due film più importanti, l’altro è il meraviglioso Grand Budapest Hotel di Wes Anderson, e ad Emma Stone che interpreta la figlia di Riggan, in una versione di una ragazza acida e innocente.
Se ci fosse stato uno scrittore di livello forse avremmo visto il capolavoro. Non è così.