L'editoria se la passe male e non solo in Italia, però quando a sparire è una rivista di grandissimo prestigio è proprio una brutta notizia. Dopo lo stop temporaneo di Linus, a chiudere, sembra senza appello, ora è L'Europeo, che si era già fermato per anni. Il settimanale, poi mensile, fondato da Arrigo Benedetti è arrivato al capolinea e lo dice il suo direttore attuale Daniele Protti, a cui va simpatia e merita per la pervicacia con cui ha portato avanti questo progetto. Per L'Europeo è passato il meglio della cultura e del giornalismo del nostro paese. Nomi come Besozzi, Bocca, Malaparte, Stella, Pannunzio, Del Buono, Fallaci, prima della svolta antislamica, Ortese, Flaiano, Vertone e molti altri che fanno una lista preziosa che andrebbe sempre tenuta a mente.
L'ultimo numero è davvero una bella sintesi di questa storia fatta di storia, di chi ha voluto raccontare un paese, nel bene e nel male, i suoi cambiamenti, fra vittorie e sconfitte. L'ho sfogliato prima di scrivere questo post, fermandomi sul ritratto che Curzio Malaparte del leader del Pci Palmiro Togliatti, del reportage da Saigon di Oriana Fallaci e dell'intelligente viaggio di Flaiano nel cinema di Kubrick. Basterebbe questo per giustificare un acquisto, ma c'è anche tanto di più, corredato da fotografie sempre curatissime. Dispiace considerando come ogni mese escano e muoiano riviste che inseguano qualche copia di vendite in più con nomi con termini tipo click e web, ma chi frequenta la rete sa che certe cose le trovi direttamente su internet. Che si fa allora? Si discute di business model, dal freemium ai nuovi metodi di pagamento più veloci, senza però chiederci se c'è tempo o voglia di leggere una rivista. Sarebbe quasi da riproporre il dibattito fra orizzontalità e verticalità, scomodando Deleuze e Focault, ma questa non è la sede, o forse lo è anche, ma sono anche stanco perché spesso quello che manca è l'attenzione.
Se si vedono con attenzione i dati di Audipress si vedono che tutto il comparto (quotidiani più periodici) perdono copie e perdono investimenti pubblicitari. C'è un colpevole? Non ha senso ragionare in questo modo, visto che il fenomeno è mondiale, c'è sicuramente un cambiamento potente di linguaggi e mezzi di comunicazione, ma anche di abitudine e di temi, credo che venti anni fa nessuno immaginava ci potessero essere periodici dedicati al mondo del tatuaggio, o delle unghie, diciamo del nailing. Il punto è che non si tratta della carta, ma delle storie e anche di un sistema industriale del racconto. Credo che la prima cosa sia renderci conto che la qualità va pagata, fondamentalmente, che il sistema dovrebbe basarsi sul contenuto, che è già una forma, certamente in connubio con la piattaforma su cui viene declinato. Ma ci siamo vicini o siamo già troppo lontani?