“Il racconto è la forma perfetta quando sei un giovane scrittore. Ho un grande affetto per tutte queste storie. Ho con loro quasi una relazione vitale. Ricordo molto bene quando e come le ho scritte. Rappresentano una parte importante della mia produzione come scrittore che in Italia non è tanto conosciuta” dice Peter Cameron, lo scrittore americano giunto alla ribalta mondiale con tutta la sua letteratura asciutta e lineare ma soprattutto con un titolo che è Un giorno tutto questo dolore ti sarà utile.
Arriva a Cosenza, dopo la tappa al Salone del Libro di Torino, accolto dalla Fondazione Premio Sila, presieduta da Enzo Paolini, nell’undicesima edizione del premio omonimo.
Cameron è un romanziere che si è imposto all’attenzione mondiale grazie anche agli adattamenti cinematografici, come quello dal suo libro più famoso, ma uno nuovo ne è in arrivo tratto da Andorra, che ha iniziato vendendo il suo primo racconto alla celebre rivista The New Yorker nel 1983, un anno dopo la sua laurea. Dalle short stories è partito e alle short stories è tornato con la sua ultima fatica letteraria pubblicata in Italia da Adelphi.
Il suo ultimo libro, Che cosa fa la gente tutto il giorno?, è una raccolta di racconti. Un ritorno al passato visto la sua carriera di scrittore. Come è nato questo lavoro?
Durante il primo decennio della mia vita come scrittore io ho scritto principalmente racconti, e nei tre decenni successivi ho scritto soprattutto romanzi. Eppure, anche quando sono diventato quasi esclusivamente un romanziere, ho continuato a scrivere occasionalmente racconti, perché so bene la forza che ha in sé la short stories. I racconti di questo libro sono raccolti in un periodo di 34 anni, dal 1980 al 2014, un arco che ripercorre la mia vita da scrittore. Ho selezionato racconti di questo periodo per questo libro che ho sentivo che avevano ancora un significato per me, storie a cui mi sentivo ancora connesso e storie che sentivo potessero convivere nello stesso libro.
Alcuni dei suoi film sono diventati film di successo diretti da registi che vanno da Ivory a Roberto Faenza. Come è per lei il rapporto fra parola ed immagine?
Quando scrivo libri, la relazione tra parola e immagine è molto stretta, perché visualizzo ogni personaggio e luogo nei miei libri e cerco di creare un mondo visivo usando le parole. Io lavoro perché voglio che la mia scrittura sia sensuale e coinvolgente, ma il rapporto tra parola e immagine è molto diverso in un film, perché le parole sono effettivamente sostituite da immagini, e quelle immagini non sono le mie: sono i volti degli attori, gli abiti dei costumisti, le stanze e i mobili di gli scenografi, il clima del lighting designer, e in questo modo le parole dei miei libri si trasformano completamente in un’opera d’arte totalmente diversa creata da molte persone diverse. Per questo motivo, non partecipando al processo di trasposizione e adattamento, io non mi sento in alcun modo legato ai film che sono tratti dai miei libri se non magari come spettatore.
Dopo il Premio Sila ed il Salone Del Libro di Torino a cui lei ha partecipato, possiamo dire che la pandemia è finita anche per la cultura oppure stiamo ancora respirando a fatica?
Ovviamente non sono uno scienziato o un medico, quindi non posso dire se la pandemia sia finita. Penso che forse stiamo vivendo in una nuova era in cui le pandemie non finiranno mai veramente: ci sarà sempre una nuova variante, o un nuovo virus, in attesa di affliggerci, e dovremo imparare a convivere con questi virus. Il mondo sta cambiando così rapidamente ed in così tanti modi che trovo molto difficile immaginare come saranno i prossimi anni e decenni. Sembra che stiamo vivendo in un tempo effettivamente sempre più precario e pericoloso e forse potremmo non respirare bene mai più tanto facilmente.
Dal Vermont alla Calabria. Un salto lungo. Come è stato l’impatto con questa terra e come la descriverebbe da scrittore?
Da quando trascorro parte della mia vita nel Vermont sono diventato molto interessato e attento alla natura, in particolare alla vegetazione e alle piante che crescono spontanee. Il paesaggio qui in Calabria sembra essere molto fertile e bello. Davvero mi incuriosisce vedere crescere tante piante, alcune che conosco e riconosco e altre, invece, che mi sono sconosciute e mi sorprendono. La primavera è un periodo dell’anno molto speciale per me perché gli inverni nel Vermont sono molto lunghi con tantissima neve; quindi, il verde della primavera mi dà sempre grande gioia e conforto agli occhi e all’animo. Essere in Calabria, quindi, in questo periodo speciale dell’anno, quando la natura è così abbondante e rigogliosa e tutte le piante sembrano giovani, sane e piene di promesse è davvero bello per me. La fresca bellezza del paesaggio qui mi rende molto felice.