Volevo vedere moltissimo Favolacce, il film dei fratelli D’Innocenzo che avevo vinto a Berlino l’Orso d’Argento e altri Nastri d’Argento. Allo stesso tempo avevo paura. Ho sempre paura delle opere premiate, perché spesso le ragioni dei premi non sono le ragioni di uno spettatore o di un lettore in caso dei libri. Eppure il fatto che recentemente mi fosse piaciuto un altro premiato, Il Colibrì di Veronesi, scrittore che non ho mai amato molto, mi ha fatto pensare che forse magari il mio apparato critico si stava normalizzando. C’erano anche altri motivi che mi facevano ben sperare, come la presenza di Elio Germano, forse l’attore italiano della sua generazione che più apprezzo per la sua duttilità e poi per il volto di questi due fratelli che sembrano sicuramente qualcuno dirà che sembrano avere dei problemi di relazione. A me invece ispiravano fiducia. Si sa però che ognuno ha il suo immaginario ed i suoi riferimenti.
Questa non è una recensione, sia chiaro. Io continuo ad occuparmi di serie tv, però questo film mi ha ispirato alcune riflessioni. Prima di tutto mi è piaciuto moltissimo, ha incontrato il mio gusto sia nella scansione temporale, sia in quella visiva.
E’ un film crudele, anche se non si vede una sola goccia di sangue. C’è tutta la crudeltà del quotidiano di quelle villette a schiera dei sobborghi delle periferie extraurbane non solo italiane, ma oramai occidentali. Questa è anche un’altra caratteristica del film, quello di uscire dallo specifico italiano e di raccontare per grandi linee un’estetica occidentale. Ricorda in alcuni passaggi Happyness, film di Todd Solondz che aveva fra i protagonisti l’indimenticabile Philyp Seymour Hoffman.
Favolacce è una storia di profondo disagio non nel senso classico e pasoliniano del termine. Non siamo nelle periferie di Citti in Accattone. Qui ci sono spicchi di giardino in cubicoli di cemento a due piani con in sottofondo il rumore dei tagliaerba, c’è il sogno tradito del benessere per tutti e della meritocrazia del milione di posti di lavoro di Berlusconi anni ’90 e dell’evoluzione della crisi del capitalismo con l’ascesa della Cina e delle tigri asiatiche. E’ un mondo senza passato e senza futuro, che vive e soffre in un eterno presente. C’è molto di più del film dark come è stato detto da alcuni giornali, in senso positivo. Favolacce è anche il canto del cigno di un’ideale di società che veniva dalla stagione politica dei Progressisti di fine millennio. La perenne presenza degli smartphone mostra una profonda incapacità relazionale fra adulti che non sono adulti e bambini che non sono bambini. C’è una adolescenza istantanea per tutti. E’ inutile parlare di Rodari, di Don Milani e del maestro Manzi quando la scuola è un’insieme di attività che non hanno un percorso o una finalità ben chiara se non il consumo dello spazio e del tempo.
Il sesso è ovunque. Un sesso per lo più maschilista e machista che è solo sinomino di sfogo e soddisfazione degli istinti. Non c’è erotismo, c’è violenza. I primi a farne le spese sono i bambini, perché l’infanzia è polverizzata, annientata, devastata nella fretta di crescere per arrivare di nuovo ad un’incertezza senza fine. Non c’è identità o parità fra uomo e donna, non c’è intesa, c’è solo un senso masturbatorio di placare gli istinti. È il frutto della precarietà, dei reality show, che vede i genitori più propensi a volere figli influencer che dottori! Un mondo che poi si autoassolve sempre e che cerca sempre il colpevole al di fuori. L’eterna ricerca del nemico perché lo specchio è rotto. E porta male.
A mio avviso siamo di fronte non alla bellezza, parola sempre più usata ed abusata solo in senso visivo, ma ad un fascismo della vanità che denota una profonda insoddisfazione esistenziale. L’insoddisfazione di ogni ambito relazionale viene colmata da un edonismo autoreferenziale che è sempre più breve ed insoddisfacente.
E’ il film che mancava al cinema italiano e che dovrebbe essere visto, ma bisogna essere preparati. Troppo spesso crediamo che solo le scene di sesso e sangue siano disturbanti. Il quotidiano spesso è molto più devastante. Soprattutto quando non c’è via d’uscita.