Le Radici Umane narrate con la fotografia di Valerio Bispuri

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bispuriCi sono fotografie che non ho scattato, immagini che hanno sospeso la mia emotività e il mio contatto con la realtà.” Questo è l’incipit di Dentro una Storia, il libro di Valerio Bispuri, uno dei fotoreporter italiani più conosciuti nel panorama della fotografia non solo nazionale e che sarà presente al prossimo festival Corigliano Calabro Fotografia con un lavoro realizzato proprio nel comune di Corigliano-Rossano, muovendosi fra le contrade ed il mare di Schiavonea. Radici Umane sarà il titolo della mostra che sarà al Castello Ducale di Corigliano-Rossano all’inizio di luglio. Me lo dici proprio mentre lo incontro in un finale di un maggio uggioso e piovoso, un maggio, questo 2023 che ricorderemo per moltissimo tempo. Lo incontro dopo aver visto su Sette, il magazine del Corriere della Sera, le foto in mezzo alla festa dello scudetto del Napoli, accompagnate dalle parole di Roberto Saviano. Non sono però le immagini di un tifoso quelle del romano Bispuri, sono piuttosto quelle di un antropologo, di un viaggiatore che cerca sempre l’uomo.

 

bispuri«Abbiamo il titolo: Radici umane. Semplice e perfetto. Ci sono arrivato vedendo l’attaccamento che c’è al territorio qui a Corigliano Rossano. Proprio forte terreno a quelle che sono le le radici proprio della storia calabrese, ma in questo caso proprio del locale e dell’umano. Perché il mio lavoro è sempre verso l’uomo, sull’uomo, quindi sguardi, occhi, mani ed intensità.»
Mi dice mentre conversiamo bevendo qualcosa insieme al team che organizza il Corigliano Calabro Fotografia guidato da Gaetano Gianzi, un evento che ormai ha sempre più una rilevanza nazionale. Ci penso un attimo e gli dico che il 2024 sarà l’anno del turismo delle radici. Sorride e mi racconta di un bellissimo reportage che ha realizzato sui Calabresi a Buenos Aires nel 2016, proprio sul concetto di radice da mantenere in una terra diversa.

Quanto è importante la fotografia per la conservazione della radici e della memoria?
A me piace molto il termine radice perché mi dà proprio l’idea del legame. La fotografia credo che in questo senso sia forte. La mia fotografia, se la osservi ha una grande forza umana. Po la mia forza, il mio limite. La mia forza perché vado a sviscerare quello che è l’uomo e le radici partono dall’uomo. È però il limite perché non riesco proprio a vedere un altro tipo di fotografia.

Il limite in che senso?

Ora io ti dico una cosa che fa impallidire, una cosa che ogni tanto faccio trapelare alle mie conferenze: a me la fotografia non piace in realtà, io non sono un appassionato. Sembra esagerato ma c’è un motivo. La spiegazione è che io alla fine fotografo solo l’uomo, cioè io non vado mai con la macchina fotografica a fotografare qualcosa, io uso la fotografia come mezzo per raccontare l’umanità dimenticata l’umanità perduta, la persona che soffrono, la sofferenza umana. Cioè per me la fotografia è legata soltanto a quello. Quindi l’appassionato di fotografia e quello che fotografa per il gusto di fotografare, io no.

bispuriQuindi la fotografia come strumento di narrazione?
Esatto. E quindi i carcerati drogati, sordi, malati mentali e le donne che sono state violentate in Argentina, i bambini in Libano, cioè tutto questo, per me la fotografia è legata all’umanità, all’umanità perduta e quindi poi quando vedo un edificio o un oggetto fotografato ne riconosco la bellezza, ma non mi appassiona.

C’è una funziona anche escatologica in questo?
Non credo, è sempre stata in me, fin da ragazzino quando andavo in giro e mi mettevo a parlare con i barboni. All’epoca credeva di avere la vocazione del giornalista ma poi ho capito che con la scrittura non riuscivo a comunicare quanto volevo, che la scrittura aveva una dimensione diversa da quello che intendevo io, che mi apparteneva molto meno.

In che senso?

Con la scrittura puoi barare. Narrare e barare. A me non mi interessa narrare e barare, devo raccontare in realtà. E quindi non sono un romanziere, ma se sei anche un giornalista, comunque un qualcosa di tuo lo metti. E invece la immagine è quella. Più di tanto non la puoi modificare, la puoi soltanto far capire attraverso le tue emozioni. Quindi io dico sempre che nella filosofia c’è un bilanciamento tra le proprie emozioni e la realtà, quindi devi concepire l’emozione e la tua emozione che senti per quella cosa, trasportarla nella realtà senza che prevarichi troppo sulla realtà o la realtà sulle tue emozioni?

Come ti prepari per un reportage?

Ma dipende. Prima di qua, per esempio, ne ho fatto uno in Libano, di due giorni.  Una cosa faticosa, intensa, con l’Unicef sull’infanzia abbandonata. Alla fine tutto nasce dalla scelta di “non scattare”.

Come dice nel tuo libro?

Precisamente. Perché se tu non scatti, non scatti dentro di te, non solo con la macchina. Porti dentro l’immagine e lavori, la senti, la vedi, la concepisci e poi dopo che hai fatto tutto questo lavoro lo scatto che verrà dopo sarà molto più forte e più potente dello scatto che potevi fare all’inizio. Quindi un processo di metabolizzazione del reale. Non scattare ti permette di conoscere. Quando ho realizzato dei reportage sulla malattia mentale io passavo giornate intere con i malati fare un solo scatto. Poi le immagini che sono venute fuori hanno a detta di tutti una grande potenza. Questo è il mio modus operandi, così arrivo alla radice.

Non è la prima volta che vieni in Calabria. Qual è il rapporto con questa terra?
io ho scoperto la Calabria con un amore che ho avuto di una donna calabrese e con la quale mi ha portato in Aspromonte. Abbiamo fatto un viaggio di quasi due mesi, io e lei in macchina in Aspromonte, tantissimi paesini, una volta abbiamo dormito su una montagna in una borgo abbandonato. Amo la forza che c’è in questa terra e nella sua gente, la grande passione e l’ospitalità che hanno. So bene anche che prima di entrare in casa è il calabrese che ti deve aprire la porta, usiamo questa metafora. So anche che tu non lo puoi prendere in giro perché non lo dimenticherà. Questi giorni qui a Corigliano-Rossano, fra le collina ed il mare di Schiavonea sono stati davvero intensi e belli.