Questo pezzo è stato scritto già oltre una settimana fa ed è uscito in stampa, purtroppo un po’ di cose mi hanno impedito di metterlo direttamente sul blog. Ne ho un po’ che sono in lista d’attesa. Ringrazio comunque le migliaia di amici che continuano a seguirmi.
The Bear ha un ritmo jazz: si parte dall’improvvisazione, poi sospensione per aumentare l’attesa degli eventi sia nello spettatore ma ancor di più nei personaggi, per andare al caos assoluto, il tutto sostenuto da una regia e da una scelta musicale sempre funzionali, che sorreggono l’intera operazione senza mai emergere in una forma prepotente. La forma qui conta moltissimo, in questa narrazione dove non comprendiamo fino in fondo i motivi dei personaggi e delle loro azioni. La cucina è un ideale, un concetto puro che tutti i personaggi aspirano a fare proprio. La, però, cucina sembra essere anche il luogo migliore per raccontare le stratificazioni esistenziali dei personaggi che la popolano. Quello che conta infatti della cucina è il risultato finale e mai i passaggi intermedi che dovrebbero essere sempre gli stessi, perché la routine semplifica il lavoro – la routine aiuta molto anche nelle malattie di lungodegenza – ma poi sappiamo che la vita entra sempre nel lavoro. Ecco perché The Bear è quasi prevalentemente ambientata dentro la cucina del ristorante, con i rari esterni di Chicago a dare un contesto. La cucina, intesa come set e come idea, è assoluta. È quel posto in cui tutto si distrugge, è portato al parossismo, per poi annullarsi di fronte all’affetto, all’amore, alla voglia di sopravvivere in una società spietata, che vive di estremi, che vibra di dolore ed empatia. Per ottenere questo grado di complessità senza rinunciare al coinvolgimento emotivo e all’intrattenimento, The Bear eccelle non solo da un punto di vista visivo, ma soprattutto in altri due elementi
Uno, come si diceva, è la scrittura, che ci restituisce una profondità di situazioni – fra tragedia, drammaticità e humor – e il retroterra narrativo dei personaggi senza mai esplicitarlo ma solo facendolo emergere con le interpretazioni, con i dettagli, con gli accenni. Siamo catapultati in un mondo frenetico e folle, non conosciamo nulla e nessuno, eppure in poco tempo comprendiamo quali siano i motivi che muovono i personaggi. Funziona, inoltre, la scelta di comporre la serie di soli otto episodi, quasi tutti brevi (mezz’ora) o brevissimi (venti minuti): un minutaggio lontano dalle mode più recenti (si veda Stranger Things), ma che premia il ritmo e la coerenza narrativa. The Bear sceglie di allontanarsi dalla serialità televisiva facile e con poco coraggio. Lo fa trasformandosi in uno schiaffo violento allo spettatore, che, come in un incontro di pugilato, si ritrova frastornato eppure magnetizzato da una storia che mette in scena la vita e tutto il suo incomprensibile fascino.
Inesistente in Italia, il panino americano noto come Italian Beef Sandwich è un’istituzione in tutti gli Stati Uniti. Si ritiene che sia nato agli inizi del 900 quando i tanti immigrati italiani che lavoravano a Chicago alla Union Stock Yards (una grande area di macellazione di bovini, suini e ovini) a fine turno si portavano a casa i pezzi più duri di carne che la società non vendeva. Oggi l’Italian Beef, come si vede in The Bear, si prepara con il controfiletto di manzo cucinato insieme ad aglio, origano ed altre spezie. Il taglio di carne è arrostito a 177° affinché perda il 45% del suo peso, mantenendo però l’umidità necessaria per conservare un proprio sughetto. A questo punto la carne viene raffreddata, affettata e cotta nuovamente in quel sughetto per alcune ore. La consistenza sugosa finale è essenziale per impregnare il pane.