Suburra: il film che non c’è

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E’ strano vedere un film del genere nel momento in cui sta partendo proprio il processo su Mafia Capitale. Io non ho voluto leggere l’omonimo romanzo di De Cataldo, edito da Einaudi nel 2013, prima ancora o contemporaneo all’inchiesta. E’ difficile parlarne per me, che sono uno di quei romani definiti veri o storici, ma che non faccio parte del centro. E’ difficile perché in questo film la grande assente è proprio Roma . Ci sono solo dei segnali. Però se ne vuoi parlare devi vederlo. E ti chiedi, alla fine, che cos’è Suburra?
Non è facile parlarne soprattutto quando c’è un sindaco-non sindaco e la metro si rompe ogni giorno e si sa che se Marino si dimettesse definitivamente molte vetture tornerebbero a funzionare. Non ci credete? Vedremo. Perché questa è la citta della repubblica, dei sette re, dell’impero, dei papi, del milione di abitanti nell’antichità, dei pascoli per le pecore durante il medio evo, della stagione del triumvirato, dell’occupazione tedesca, della nuova repubblica, del terrorismo e di tante altre cose. Una città fondata sul sangue come hanno raccontato bene Cristiano Armati e Yari Selvatella nei loro libri. Una città dove non ti accorgi che sotto di te ce ne sono altre sette, archeologicamente e storicamente dimostrato, una città su un fratricidio o su un migrante, secondo le leggende più famose. Però è anche una città dove si resiste, bastarda nel suo fascino, ma che se la capisce ti sa rapire, anche se arriva persino ad odiarla. Forse per questo il film non riesce a raccontarla. Non ci prova nemmeno. Il film si basa sui palazzi e poi su Ostia. Stop. Le piazze, le occupazioni, i movimenti, le associazioni non ci sono. Speravo che almeno Rulli e Petraglia avessero passato questa loro passione per i racconti attraverso i palazzi del potere, usata giustamente e mitigata in Romanzo Criminale, parlo del film (la serie è un’altra cosa ed è superiore), invece sono peggiorati. Speravo avessero visto almeno True Detective per misurarsi con l’immediatezza criminale e di genere del noir. Questo non è neanche un film di genere, anche se Goffredo Fofi ne parla quasi come un revival del poliziottesco. Io ho avuto la fortuna di conoscere i protagonisti di quella stagione, dei maestri di tecnica e racconto, di bere vino con loro seduto a tavolacci di legno anche di Ostia e di capire meglio certe cose apprese all’università e da maestri del racconto cinematografico come Robert McKee.
Una sceneggiatura è conflitto e cambiamento. In questo film il conflitto è fra bande criminali e basta. C’è il male e non c’è il bene. Non puoi immedesimarti con nessuno. Eppure Gomorra, la serie, ci ha fatto vedere il male, ma ci ha fatto vedere anche le debolezze del male, la fragilità di certi personaggi, ha creato empatia con le vittime, ma anche coi carnefici: pensa alla ragazza nel negozio di abiti da sposa e a Genny al ritorno dal Sud America. I cattivi poi sono costruiti sui cliché più banali, a cominciare da Favino, il deputato di centrodestra, ex attivista fascista, (quella celtica sul petto non è un caso) che si fa la sua notte brava di sesso, anche con una minorenne, nell’albergo cinque stelle lusso più prestigioso della capitale – e si capisce qual è.
Da questa estate la gente ha scoperto i Casamonica, qui si chiamano Anacleti famiglia di “zingari”, di cravattari, cioè usurai. Ci si dimentica che sono i gestori della droga della zona sud della capitale e di altri giri criminali. Perché lo sottolineo? Perché se il reparto marketing ha fatto uscire questa film proprio all’inizio del processo allora gli ha dato un valore instant che non ha! Inoltre questa è una vicenda che ha bisogno, al di là dei suoi aspetti processuali, di essere approfondita, digerita ed elaborata e non di essere mal raccontata come fosse lontana, come se non ci appartenesse. Noi questa città la abitiamo e la viviamo. Manca un approfondimento psicologico dei personaggi, che sembrano anche mal recitati, Favino non si sa in che direzione voglia andare, Amendola rasenta la statua di sale, Elio Germano, l’unico con cui si potrebbe empatizzare, alla fine prende il capo degli “zingari” a casa sua, dove fino a pochi minuti prima c’erano almeno trenta persone, e poi lo dà in pasto al suo pitbull. Ma scherziamo? Ci sono scene di violenza che sono inverosimili, come la sparatoria nel centro commerciale semivuoto, col parcheggio semivuoto. Forse ad agosto. Manca la verosimiglianza ed è grave. Manca l’ironia, come sottolinea bene Raimo nella sua recensione su Internazionale. Non sto parlando di risate facili, ma di quelle risate amare, che fanno riflettere e lasciano il tempo alla rabbia e al sangue di sbollire. Una caratteristica tipica di questi città, di chi ci nasce e di chi ci viene a vivere. Perché questa è una città contagiosa: nel bene e nel male.
Note positive vengono dal cast tecnico, come la scenografia di Paki Meduri, apprezzato sia per la serie di Gomorra, che per 1992, bravo anche Sollima alla regia, ma qui c’è da fare un distinguo. Alcuni che come me non hanno apprezzato il film hanno dato la colpa per questo alla regia. Qui però siamo all’interno di un modello di lavoro diverso, molto anglosassone, qui il regista non è più il demiurgo del film, al di là di quello che dicono i magazine, ma fa parte di una struttura, di un team, dove al centro c’è lo script. Lo script qui è un colabrodo. Sollima invece riesce a dare una bella luce, grazie a Paolo Carnera alla fotografia, nonostante la sceneggiatura ci mostri una città insolitamente piovosa. Il modello è quello della serie tv dove la scrittura è tornata centrale, un modello produttivo

Sergio Citti

che è quello delle serie tv e meno cinematografico. Anche su Ostia forse chi scrive avrebbe dovuto rivedere tutti i film dello scomparso Claudio Caligari, o quelli di Sergio Citti, come Ostia e Il Casotto, per avere una visione d’insieme migliore. E’ vero che non siamo più negli anno ’70, ma Ostia non è Atlantic City. Ha uno specifico che si poteva raccontare, perché è stato raccontato, si poteva aggiungere qualcosa in più, specialmente sul linguaggio, che doveva diventare un elemento importante per questo film, invece resta piatto, neanche di vero uso quotidiano.
So che faranno una serie tv e da questa mi aspetta sicuramente di più, come è stato il passaggio dal libro di Saviano, al film di Garrone – che non mi ha convinto – alla bella serie di Sky. Serve tempo per scrivere e raccontare, l’audiovisivo non è una pagina web.