Camminare da soli aiuta ad ascoltare meglio

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Toni Morrison, la prima donna afroamericana a vincere il Nobel per la letteratura,  nei suoi libri descrive due tipi di solitudine.
 
La prima “è una solitudine che può essere cullata. Con le ginocchia piegate e le braccia incrociate a tenerle strette, e un movimento che conforta e lenisce”.
 
La seconda “è una solitudine che vaga. Non si può contenere cullandola. Ha una vita tutta sua”.
 
Non ce n’è una migliore o peggiore. Neanche una buona o una cattiva. A volte ci serve per frequentare noi stessi un po’ di più, che poi non è affatto male.

Enzo Bianchi dice una cosa importante: “La solitudine è sofferenza maledetta non quando si è soli ma quando si ha il sentimento di contar niente per nessuno.”

Saramago, il grande scrittore portoghese dice: “La solitudine non è vivere da soli, la solitudine è il non essere capaci di fare compagnia a qualcuno o a qualcosa che sta dentro di noi.”

Già. Questa mi fa pensare che la solitudine non riguardi solo il numero di persone che hai accanto, ma qualcosa che riguarda la comprensione. La comprensione di noi stessi, ma anche della lingua che parliamo e del modo in cui parliamo.

Kipling, quello del Libro della Giungla, dice: Siamo tutti isole che gridano bugie in un mare di incomprensione.

Bella botta vero? Però ti fa riflettere sul fatto che la solitudine sia legata all’ascolto, a come sei in grado di accogliere l’altro e soprattutto le sue parole. L’altro è uno specchio dove puoi vederti. Se vuoi. Se ne sei capace. Però a volte se ti metti troppo trucco non vedi più qual è la tua pelle e di che colore sono i tuoi occhi.

Certo è vero che l’incomprensione è connaturata nella natura umana. Diane Arbus, la grande fotografa ritratta nel film FUR, dice bene “L’amore comporta una combinazione peculiare insondabile di comprensione e di equivoco“.

Ecco anche foto può essere benissimo un equivoco. Un’incomprensione. Però c’è un’altra questione: siamo disposti ad imparare la lingua dell’altro?
Come dice Bergson: L’intelligenza è caratterizzata da una naturale incomprensione della vita.
E Pessoa, il poeta fingitore, uno di quelli che amo di più in assoluto, dice:

Di quante complesse incomprensioni è fatta la comprensione che gli altri hanno di noi.

Magari la cosa migliore sarebbe fare come dice Gibran: Non ci comprenderemo mai fra noi finché non avremo ridotto la nostra lingua a non più di sette parole.

Suona strano da uno che ama le parole come me, però c’è tanta verità.
Lentamente sto imparando che l’esistenza è fatta di passi, anche piccolissimi e dello spazio fra l’uno e l’altro. Insieme fanno il viaggio. Sto imparando che è fatta di parole, ma soprattutto del silenzio che c’è in mezzo.
Sto imparando che la solitudine non sempre è fatta solo di silenzio, ma rispetto ed accoglienza. Per se stessi.

Intanto magari si può camminare a piedi nudi dentro e fuori se stessi. Respirando. Anche da soli.