La Serialità Espansa

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Proust era un neuroscienziato

Nel 2007 John Lehrer diede alle stampe un saggio dal titolo intrigante e provocatorio: Proust era un neuroscienziato. L’autore è un giovane saggista statunitense, nato nel 1981, laureato alla Columbia University di New York, e scrive di psicologia e neuroscienze, occupandosi specialmente dei rapporti tra la scienza e le discipline umanistiche, una branca del sapere che ha sempre interessato anche il sottoscritto. L’autore nel libro mette in relazione le neuroscienze con l’arte e la letteratura e, in una sintesi tra cultura umanistica e cultura scientifica, analizza l’opera e le intuizioni di alcuni artisti, argomentando l’idea che la scienza non è l’unica via possibile per la conoscenza. Nel capitolo su Proust, Lehrer fa riferimento a uno studio del 2002 pubblicato da Rachel Herz, una neuropsicologa della Brown University, secondo cui il gusto e l’olfatto sono in collegamento diretto con l’ippocampo, che svolge un ruolo importante nella memorizzazione, e i due sensi hanno un ruolo importante sia nella formazione dei ricordi che nella loro evocazione. Parliamo dell’episodio in cui il protagonista della Recherche, in particolare nel primo volume, Dalla Parte di Swann, mangiando una madeleine, si perde in un turbinio di ricordi e sensazioni naturalmente scritte in maniera straordinaria, che addirittura diventò famosa come Sindrome di Proust, intendendo un superamento della figura retorica della sinestesia, cioè l’accostamento di due parole appartenenti a due sfere sensoriali diverse. Tutto questo rese immortale lo scrittore francese ed un pasticcino. Qualcuno si chiederà cosa c’entra tutto questo con la serialità, specialmente quella televisiva? Chi ha detto che la serialità è solo televisiva? Alla ricerca del tempo perduto è considerato uno dei massimi capolavori della letteratura ed è composto di sette volumi usciti fra il 1913 ed il 1927, considerato il romanzo più lungo del mondo con le sue 3800 pagine. Circa.

NARRAZIONE: Transmedialità + Marketing + Internet

Avevamo annunciato che avremmo iniziato il nuovo anno, il famigerato 2020, o venti-venti come piace dire ad alcuni partendo con un discorso più generale, perché la serialità sta di nuovo cambiando e stavolta sta subendo una trasformazione epocale che però parte dal passato. C’era una volta il cinema. C’è ancora. C’era una volta la letteratura. C’è ancora. C’erano una volta le serie tv. Ci sono ancora. Ne siamo proprio sicuri? A mio avviso stiamo guardando qualcosa che è morto, dei fantasmi che stanno cercando nuove forme per reificarsi, per essere “nuova carne” per citare Videodrome, cult movie del regista canadese Cronenberg. Dopo la diffusione di internet e dello streaming dei prodotti audiovisivi si è detto che ormai si poteva parlare solo di “schermi”, grazie alla tecnologia portatile. E la musica? I Radiohead, uno dei gruppi rock più importanti degli ultimi venticinque anni hanno deciso di mettere disponibile online tutto il loro materiale direttamente da Youtube. “Cosa c’entra, quella è musica!” Vero, la stessa musica dei crooner natalizi che io ho ascoltato dal mio smart tv mentre gustavo il pranzo di Natale. Si è creduto per un po’ che i contenuti non fossero importanti, che la tecnologia bastasse. Anche questo sta finendo, altrimenti non vedremmo i grandi giganti della tecnologia diventare produttore di contenuti, pensiamo ad Apple, in Italia la Tim, o all’esperienza di Amazon Prime per citare il più grande “venditore” online. Inoltre, ricordiamoci che tutto questo oggi investe l’intero globo con quasi dieci miliardi di abitanti. Il termine che indica tutto questo, non è storytelling, parola importante, ma anche abusata troppo oggi, che è solo un bel ferro del mestiere dei professionisti della comunicazione. Non è neanche identità, altro termine abusato e che riguardo il marketing di prodotto, quello che il guru Kotler definiva 1.0 mentre oggi siamo al 4.0! La parola che secondo sarà il termine del futuro è NARRAZIONE.

Serialità Espansa

La serialità ormai è espansa, grazie alla tecnologia, e non riguarda solamente i prodotti di fiction. Oggi possiamo ascoltare, leggere e visionare prodotti di fiction che ci raccontano un thriller nella Firenze medicea e poi gustare una guida sul rinascimento italiano o sulla vita controversa di un personaggio come Girolamo Savonarola! Tutto questo apre davvero orizzonte incredibili che non possono e non devono fermarsi in moltissime discipline, anche l’economia e i settori produttici. Chi come me ha cominciato a studiare i media negli anni Novanta sa bene quanto abbiamo combattuto per far accettare il concetto di “funzione bardica” della televisione e di come si sia insistito sullo specifico televisivo. Dobbiamo andare oltre tornando alla radice. L’uomo ha un bisogno innato di raccontare e raccontarsi, non per niente le tre più grandi religioni monoteiste – ebraismo, cristianesimo ed islamismo – sono dette “religione del grande libro”. Tutti i popoli hanno saghe e miti che descrivono la loro origine ed il loro sviluppo. La narrazione ci fa sentire meno soli, raccontarci per noi è necessario e lo sarà sempre anche per comprendere l’universo che abitiamo. Oggi dobbiamo capire quali sono tutti gli “specifici mediali” di ogni mezzo di comunicazione e pensare a prodotti narrativi e narratologici che siano transmediali, perché ognuno di loro ha sicuramente qualcosa da aggiungere non solo come contenuti, ma come aspetto e sfaccettature. Perché amiamo così tanto le saghe? Perché ci raccontano. La rete però scombina gli scenari e ci proietta in una dimensione

Transmediale e Polisensoriale: Nuova Frontiera

Transmediale, come disse Jenkins nel 2006 nel suo Cultura Convergente, libro che sta esprimendo ora la sua attualità nella dimensione della produzione dei contenuti. Oggi gli utenti possono essere co-produttori aggiungendo sensi e significati che vanno al di là della semplice recensione, come lo stesso Jenkins aveva ipotizzato in suo saggio ancora più importante come Spreadable Media del 2014. Guardare una spy story e poi trovarsi all’interno della scena, poter dialogare coi personaggi, poter diventare i personaggi stessi supera addirittura quelli che erano le previsioni della realtà virtuale negli anni Novanta. Non solo Transmediale, ma anche Polisensoriale, che investe tutto il nostro apparato neurologico. Pensate se guardando The Crown potessimo bere un tè con la Regina, o se bevendo un tè più semplicemente potessimo accedere ad una banca dati di contenuti che raccontano i significati di quella bevanda e ci mostrano le sue funzioni narrative. Non vi piace il tè? Ok, allora un rum durante la rivoluzione cubana, oppure un whisky in una detective story di Raymond Chandler.  Il cambiamento è davvero epocale, mostrando una SERIALITA’ ESPANSA. Siamo pronti? Questo è l’interrogativo principale.