Monica e Lata: radici, confini, steccati e prigioni

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La morte di Monica Vitti è stato qualcosa di particolarmente coinvolgente. A molti livelli. Difficile davvero poter riassumere quanto questa donna, romana, attrice, sia diventata una vera icona di femminilità forte, anche molto oltre una certa narrazione ha voluto far vedere per anni. Personalmente è stato doloroso sia perché la adoravo come donna e perché chi è coinvolto in vicende di patologie neurologiche prova un sentimento di affetto e quasi “fratellanza”. C’è un’altra perdita, però, di cui voglio parlare. L’altro giorno a 92 anni è morta Lata Mangeshkar, cantante indiana, soprannominata “l’usignolo di Bollywood”. Già lo so che c’è chi sta pensando che le due cose non posso essere messe a paragone. Eppure la scomparsa di questa grande voce ha commosso quasi due miliardi e mezzo di persone.

Le pagine che Liberation ha dedicato a Monica Vitti sono state bellissime, anche perché in molti hanno ricordato la versatilità come attrice, la forza come donne, ma soprattutto la sua bellezza. Si, era bella. Di quella bellezza che le donne hanno nel viso e ti arriva addosso. Era bella nel suo modo di essere e di fare, da un’inquadratura di Deserto Rosso, allo sguardo severo di Assunta Patané girato da Monicelli, fino e oltre a Polvere di Stelle con Sordi. C’è stata una condivisione di immagini sui media e social media che hanno mostrato un viso ed un corpo che incarnavano tutto quello che Monica è stata e sarà ancora. Un’icona.

 

Lata Mangeshkar è un’altra icona. Conoscevo poco l’usignolo di Bollywood, anche perché il mio interesse per la cultura del cinema di massa indiana passa per porte occidentali, come per esempio il romanzo Shantaram, o altri tipi di percorsi. Con questo non posso non ammirare quanto gli indiani abbiamo fatto e riescano a fare nell’industria del cinema.  Parliamo sempre di un paese che ha culture millenarie, quasi sicuramente all’origine dell’umanità. Poi quando dici che molto probabilmente Gesù è entrato in contatto con la cultura indiana e che San Paolo sicuramente lo ha fatto, alcuni ti guardano puntandoti santini di santoni occidentali.

Sono angosciato e senza parole. La gentile e premurosa Lata ci ha lasciati. Lascia un vuoto nella nostra nazione che non può essere colmato“.  Questo ha twittato  il premier indiano Narendra Modi, una nazione di quasi un miliardo e quattrocento milioni di abitanti. La BBC ha dato l’annuncio fermando i suoi programmi visto il legame che c’è per il passato coloniale.  Nata il 28 settembre 1929, Lata Mangeshkar è stata un’artista venerata e conosciuta a livello internazionale che ha ispirato generazioni di cantanti. Ha iniziato a cantare durante l’adolescenza e nella sua carriera, che dura da oltre sette decenni, ha registrato circa 30.000 canzoni in 36 lingue. Tuttavia, è stato il suo lavoro a Bollywood, dove ha prestato la sua voce in oltre mille film indiani, a renderla un’icona nazionale. Nel 2001 ha ricevuto numerosi premi prestigiosi, tra cui la più alta onorificenza civile del paese, il Bharat Ratna . Mangeshkar, che apparteneva a un’importante famiglia di musicisti dello stato occidentale del Maharashtra, ha anche composto musica e prodotto film. Il governo ha indetto due giorni di lutto nazionale in memoria della leggendaria cantante durante i quali la bandiera nazionale sarà sventolata a mezz’asta in segno di rispetto. Inoltre la notizia è stata appresa con sgomento e dolore anche dai tanti paesi prossimi all’India e legati alla sua cultura e da tutti quelli che sono i discendenti delle ondate migratorie.

 

Due donne. Due icone.
E’ importante tenere presente quanto spesso non ci rendiamo conto della forza dell’altro. Perché lo so che molti penseranno che una è meglio dell’altra, e non per meriti artistici, ma solamente perché fa parte della sua cultura, mostrando non tanto “appartenenza” culturale o filiazione, ma una sorta di razzismo light molto praticato.
Se voi cercate su Youtube i video di Lata vedrete che ognuno ha centinaia di milioni di visualizzazioni ciascuno, roba che la signora Ferragni, che ritenga una donna intelligente, raggiungerà mai, figuriamoci gli interi cast del GFVIP che ormai vivono come dei sequestrati fuori dal mondo reale.

La presunzione, la supponenza di chi pensa che la propria sia superiore agli altri è razzismo, per alcuni sarà light, ma è fascismo. E non bisogna per forza avere la croce uncinata per riconoscerlo, anche perché se c’è una cosa che l’impero romano faceva nella sua tradizione e costruzione era proprio assorbire le culture e persino le divinità “altre”.
Io sempre pensato che per capire le nostre storie e anche per raccontarle sia necessario ascoltare le “altre”.

Il problema è capirsi. Oppure nessuno può capire nessuno: ogni merlo crede d’aver messo nel fischio un significato fondamentale per lui, ma che solo lui intende; l’altro gli ribatte qualcosa che non ha relazione con quello che lui ha detto; è un dialogo tra sordi, una conversazione senza né capo né coda. Ma i dialoghi umani sono forse qualcosa di diverso?
(Italo Calvino)

I nuovi rapporti vivono di un monologo e non di dialogo, che si creano e si cancellano con un clic del mouse, accolti come un momento di libertà rispetto a tutte le occasioni che offre la vita e il mondo. In realtà, tanta mancanza di impegno e la selezione delle persone come merci in un negozio è solo la ricetta per l’infelicità reciproca.
(Zygmunt Bauman)

Due citazioni importanti su cui riflettere. La “comprensione” è qualcosa di difficile che passa sempre però dall’abbracciare l’altro, quanto meno dall’accettarlo, anche in senso fisico – per questo la prossemica e la comunicazione non verbale sono fondamentali.

Quando si dice o si pensa “ma cosa ho da spartire con quello!”, oppure si parla di “ognuno a casa sua” e robe simili si dimentica la storia e la vita di ogni giorno. L’autosufficienza è un falso mito che non ha mai funzionato. Le discipline umanistiche, artistiche e scientifiche sono progredite solo sul dialogo e confronto. E sarà ancora così.
A volte sentiamo dire “la storia la scrivono i vincitori” o frasi di questo tipo. Nessuno. ricorda che la storia non è mai e poi mai una sola, e che spesso quella “scritta dai vincitori” è quella che ci conviene ascoltare e che un po’ vogliamo ascoltare.
Perché?
Perché “ascoltare” è faticoso. Ascoltare l’altro significa cercare, significa conoscere le proprie radici ed i propri confini ma non considerarli mai steccati o prigioni.

Nel vero dialogo, entrambe le parti sono disposte a cambiare.
(Thich Nhat Hanh)

Questa frase del maestro buddista, anche lui da poco scomparso, ci rammenta cosa serve davvero per comunicare. Due cose di cui, per mia fortuna, sembra che la natura mi abbia donato: curiosità e attenzione. Magari su altre cose è stata un po’ più avara, ma in fondo finché continuo a respirare – ed in questo ringrazia le antiche saggezze orientali – e ad avere il sorriso della persona che amo nel cuore posso evitare di lamentarmi. Troppo. Giusto qualche volta per non perdere il vizio.

Come sempre le grandi donne e l’arte costruiscono ponti, percorsi che abbiamo la possibilità di seguire. Sono tante storie che alla fine compongono quell’immenso mosaico in divenire che chiamiamo vita.