June è sempre più June e meno Racconto dell’Ancella dell’Atwood

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Questa non è una normale recensione dell’adattamento di quel capolavoro che è Il Racconto dell’Ancella di Margaret Atwood, perché capolavoro. Questo è un posto su June, su come Elisabeth Moss, interprete meravigliosa, sia il simbolo del lavoro di Bruce Miller e soci, cioè di come una serie tv possa diventare totalmente indipendente dal suo punto di origine. Non c’è più l’adattamento, c’è un punto di origine, come in tutte le cose, ma la serialità televisiva sta acquistando una capacità narrativa molto forte e capace di superare il “meglio il libro, il film o la serie?”
Nell’epoca della trasversalità dei linguaggi dobbiamo anche noi superare questo. June è il simbolo ideale.

Ammiro chi resiste, chi ha fatto del verbo resistere carne, sudore, sangue, e ha dimostrato senza grandi gesti che è possibile vivere, e vivere in piedi anche nei momenti peggiori.
(Luis Sepúlveda)
Non abbiamo limite nel tempo. Un secondo è eterno, l’importante è svilupparlo.
(Alejandro Jodorowsky)

Partiamo da qua. Da due citazioni che sembrano lontanissime, ma che in realtà non lo sono – soprattutto se hai in testa una bozza di percorso. Partiamo da uno scrittore cileno che ho sempre amato molto per parlare di una donna che ha fatto della resistenza carne, sudore e sangue. Parlo di June, la protagonista de The Handmaid’s Tale – Il Racconto dell’Ancella, la serie tv che è partita come adattamento del meraviglioso omonimo romanzo della splendida scrittrice canadese Margaret Atwood. Leggete di suo anche I Testamenti e L’Altra Grace. Se non riuscite a leggerli in lingua almeno nella splendida traduzione che ne ha fatto Gaja Lombardi Cenciarelli, amica, scrittrice, ma traduttrice strepitosa – la sua traduzione de “Il Cielo è dei Violenti di Flannery O’Connor” ha la capacità di rendere lo spirito ed il ritmo dell’originale. Traduzione ed adattamento. Non sono cose da poco. Anzi! Stiamo sempre parlando di donne, ho un debole per loro da sempre, soprattutto per la loro forza ed il modo in cui riesco a vedere ed affrontare il mondo. Un modo che per me è stato importante, anche durante tutto il percorso della malattia che sto affrontando. Nel 2017, alla fine della prima stagione di The Handmaid’s Tale, era più che naturale domandarsi tra fan dove sarebbe andato a parare questo affascinante dramma. All’inizio della seconda stagione siamo – più o meno – arrivati/e tutte finchè, verso la puntata 3 della season 2, il pubblico ha iniziato a spaccarsi: c’è chi ha proseguito a dare fiducia allo show di Bruce Miller, sorvolando su incongruenze, inverosimiglianze e vuoti di sceneggiatura; c’è chi ha abbandonato, ritenendo The Handmaid’s Tale avesse una visione definita “torture porn” insopportabile. La serie tv non è più l’adattamento. Non è neanche un “basato”, un “tratto da”, forse è un “ispirato da”. Ed è un bene. Un bene per il mondo della serialità televisiva che sta assumendo sempre di più, processo accelerato anche dalla pandemia, ad uno status di indipendenza e dignità sempre più forte. Uso proprio la parola dignità perché per troppo tempo la serialità televisiva è stata il fratello minore del cinema. Un po’ come quelli che ancora ti dicono di quanto è bello il libro di carta in confronto ad un e-book e l’ultimo che hanno letto era nel 1991. Adesso le cose stanno cambiando e continueranno a cambiare sempre di più. Perché? Perché siamo umani e come dice Jodorowsky “un secondo è eterno. L’importante è svilupparlo.” Così’ siamo passati dai racconti intorno al fuoco, agli aedi, ai cantastorie, ai giullari, agli amanuensi, a Gutenberg e a tutto quello che è venuto dopo. Lo sviluppo è umano ed nei geni e nelle cellule di tutti gli esseri viventi. Così June lotta e va avanti lasciando il setting meravigliosamente disegnato dalla Atwood.

La stagione quattro riprende da dove ci eravamo lasciati: June, ormai simbolo della resistenza dopo avere fatto fuggire 86 bambini da Gilead, è ferita e in fuga con le sue compagne (ex)ancelle. Nel frattempo continua la prigionia dei Waterford in Canada, mentre Emily, Moira e Luke tentano di ricostruire le proprie vite da rifugiati a Toronto. Dieci puntate che somigliano a una tempesta di sabbia furiosa e soffocante. Molti lamentano un senso di incompiutezza. C’è. E’ presente. Serpeggia in ogni puntata, in ogni personaggio. Però pensate bene a cosa vuol dire resistere e sopravvivere in quella situazione. La June di questa stagione è una donna molto diversa da quella che avevamo conosciuto all’inizio della serie: è una persona infranta, che non può tornare indietro ma nemmeno riesce a guardare avanti («A good mother would be able to let go»). E il modo in cui, disperatamente, si appiglia all’amore per le sue figlie appare quasi più folle della lucidità con cui architetta i suoi piani di vendetta. Ora che finalmente, dopo quattro stagioni, assistiamo a una reunion collettiva dei sopravvissuti, appare lampante come il tempo trascorso a Gilead sia una discriminante crudele che separa senza pietà coloro che sono scappati da molto tempo (Luke, Moira) da chi ha finito per assimilarne l’aria tossica (Emily, Rita). Come dice June in uno degli ultimi dialoghi con Mark Tuello:«Gilead turns you into a bit of a cunt», Gilead ti fa diventare un po’ stronzo. Tanto per usare un eufemismo. Lentamente si sta formando il tempo della vendetta. Questo è quello che appare evidente! Io rimango basito nell’aver letto alcune recensioni che parlano di incompiutezza in senso negativo. June, meravigliosamente interpretata da una bellissima Elizabeth Moss, bellissima come solo le donne che sanno parlare e dirti tantissimo con uno sguardo sanno essere, ancora non ha finito la sua trasformazione. June è umana e come tutti noi che abbiamo affrontato la questione di sopravvivere, che, come dice Capossela, “abbiamo baciato in bocca la morte”, non può essere completa. Però June vuole assolutamente e fortissimamente una sola cosa: vivere. Quello che per alcuni è incompiutezza narrativa per me invece è un passaggio obbligato che a bene espresso Yogi Bhajan, l’uomo che ha diffuso il Kundalini in Occidente: “Dovete a voi stessi l’essere voi stessi”.
E non ditemi che in fondo è solo tv, perché potrei rispondervi che L’Odissea è solo un libro. La cosa importante di June e della serie tv è la capacità di aver trovato uno status importante al di fuori del capolavoro dell’Atwood.

 

Altro esempio importante dell’evoluzione dell’adattamento, del suo superamento è “L’Uomo Nell’Alto Castello” uno dei romanzi più importanti del genio di Philip K. Dick, uno degli scrittori più importanti del ‘900 Siamo in un passato ucronico, dove la storia come la conosciamo ed in particolare la Seconda Guerra Mondiale, hanno avuto un esito diverso: il mondo ha visto trionfare le potenze dell’Asse ed ora, in un alternativo 1962, la Germania nazista ed il Giappone detengono il controllo degli Stati Uniti. La parte ovest del territorio è affidata al Giappone, mentre la parte est è sotto il dominio tedesco, al centro in una zona parzialmente neutrale si trova lo Stato delle Montagne Rocciose dove opera una debole resistenza. Anche più siamo arrivati alla quarta stagione e la sceneggiatura ha lentamente abbandonato la storia originale, dopo averla rispettata, per trovare una sua via, un suo sviluppo.