#AmericanSniper – La guerra produce morti. E fantasmi

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Lui non è un fantasma e, per non nostra fortuna, non è neanche morto. Anzi. Clint Eastwood è vivo, mi auguro stia bene, e per ora si gode il suo mucchio di candidature agli Oscar. Meritate o no alla fine non è così importante. Quello che conta è il film. American Sniper è un film che comunque ha fatto parlare di sé già prima di arrivare in sala. Ovunque la critica è divisa – come se fosse importante –  ma il pubblico sembra apprezzare gli sforzi,  anche se alcuni hanno dimostrato una leggerezza nell’affrontarlo. Non è un film facile, ma gli epiteti di fascista e guerrafondaio, sono per me ridicoli e indicano che si è rimasti sulla superficie del film. Bisogna proprio dire che Clint si è rimesso il cappello.

Prima di cominciare va ricordato chi è Clint Eastwood, icona di un certo tipo di cinema, anzi di vari tipi di cinema. Da Sergio Leone, un maestro di livello mondiale, a Don Siegel, meno conosciuto da noi, ma sicuramente un uomo che ha cambiato le regole del cinema d’azione e poliziesco. So che molti non amano questo tipo di cinema, quello che viene chiamato di genere, eppure è un cinema fatto di storie, di personaggi e di narrazione. Per capire dove nasce la regia di Eastwood dovreste vedere quel capolavoro di Siegel che è La notte brava del soldato Jonathan.

American Sniper è basato sull’autobiografia di Chris Kyle, il cecchino – sniper appunto – più letale della storia dell’esercito americano. Il personaggio principale è interpretato da Bradley Cooper, non ho molta simpatia per questo attore, però qui mi è piaciuto. L’ho sempre giudicato un po’ troppo monocorde, non a livello di un italiano o di un francese, ma qui rende benissimo.
Quando era piccolo il padre ha trasmesso a Kyle la sua filosofia: al mondo esistono tre tipi di persone, i lupi, le pecore e i cani da pastore. Chris vuole essere un cane da pastore e vuole proteggere le pecore. In questo egli è l'”americano” per Clint Eastwood, che è un repubblicano “old fashioned” che insegue, anzi che crede in un America che non c’è più. E lo sa. Sa che la perdita dell’innocenza è già successa e sa quanto la politica oramai non conti più per la gente e di quanto la gente non conti più nella politica.Non c’è nostalgia del passato, c’è piuttosto un’amara considerazione del presente: la guerra.
Chris si arruola nei Navy Seal, il corpo d’elite della marina degli Stati Uniti, fra i più famosi, famigerati e letali. Incontra una ragazza e la sposa poco tempo prima di partire. Chris voleva fare il cowboy e lo ha anche fatto per un periodo. E’ un americano medio, anzi è un texano. Medio ma con un talento: una mira straordinaria. Una mira che vuole usare per mettere al sicuro i suoi compagni d’armi, lui è il cecchino che copre i marines durante l’assedio di terra, casa per casa, porta per porta. Un inferno. Lui è il pastore che protegge il gregge, in questo caso i suoi compagni che compiono il proprio lavoro. Alcuni hanno detto che Eastwood non considera il popolo iracheno. Vero, perché in questo caso non gli proprio interessa il nemico, non gli importa se è musulmano, cristiano, russo, non c’è una motivazione ideologica, perché il cane pastore difende il suo gregge, qualunque cosa succeda, chiunque lo attacchi. In una scena, mentre sono in Iraq, un uomo è pronto a lanciare un razzo, il cecchino lo colpisce uccidendolo. Arriva un bambino che vuole finire il lavoro, ma non riesce neanche a tenere l’arma in mano. Il pastore, Chris, prega perché il bambino lasci cadere l’arma in terra e se ne vada a casa, ma il suo dito è già sul grilletto pronto ad eliminare la minaccia. Ha un compito e comunque lo deve portare fino in fondo. Questo fa un cane pastore. Qui sta tutta la tragicità del film. Quelli che lo accusano di essere guerrafondaio forse non afferrano che Eastwood disegna la guerra come una dimensione che svuota completamente i soldati di qualsiasi brandello non umano, ma emotivo. Qui non si discutono gli Stati Uniti e la loro politica estera, qui siamo ad un livello più alto, si mostra come una nazione distrugge la sua gente, i suoi uomini, come la guerra massacra tutti, anche i sopravvissuti. Noi vediamo queste macchine da guerra, i seals, a chiacchierare della loro vita, come se oramai quella fosse la loro unica dimensione. Uno di loro racconta che farà la proposta alla fidanzata con un anello che ha comprato lì in Iraq e viene deriso dai compagni. Morirà poi in ospedale per le ferite riportate. Come esci da lì? O morto o fantasma. C’è un momento del film, prima che comincia la splendida sequenza della tempesta di sabbia, in cui un suo compagno dice: “io oramai non ci credo più in questa merda“. Chris, però, non può andarsene da lì senza aver sconfitto il nemico. Il suo nemico, Mustafà, un cecchino iracheno che è stato oro olimpico. Qui c’è il cambio di passo, quando la guerra diventa personale, e solo dopo averlo sconfitto potrà tornare a casa. Non c’è più l’America, non c’è più il presidente, c’è il senso di sfida personale, Uomo contro Uomo, anzi Killer contro Killer. Quel che resta è una generazione di fantasmi, di mutilati, che non riescono mai del tutto a tornare uomini.
Accanto al protagonista c’è una moglie che lo ama, una convincente Sienna Miller, che lo aiuta e Chris si ritrova ad aiutare i reduci, anche se sarà proprio un reduce ad ucciderlo. Neanche Chris riuscirà a uscirne del tutto, si sentirà sempre in dovere di aiutare i suoi commilitoni, dicendolo anche allo psicologo: Io ho mollato. Lo chiamavano La Leggenda, nessuno ha ucciso più uomini di lui in guerra. Capisco le critiche e il risentimento, non viene mostrata una visione netta contro la guerra, né gli errori dell’aggressione all’Iraq, ma è una lettura superficiale. Resta una nazione, anzi un mondo, che deve convivere con una violenza profonda e con delle ferite laceranti dentro se stessa. Si è parlato di solitudine dell’eroe. Forse. E’ anche vero che l’eroe, il cane pastore, alla fine viene ucciso da una pecora che diventa lupo. Questo deve far davvero riflettere.
Come sempre ottima la regia, gran ritmo, alcune sequenze memorabili, anche se meno di altri film, forse perché quella che viene messo alla luce e la desolazione dell’animo umano, anche nello spirito di gruppo dell’esercito.

PS Chiarisco la questione del cappello. Il signor Eastwood è un uomo, forse l’ultimo, che riesce ancora a fare il cinema americano tradizionale. “Rimettersi il cappello” è proprio nei momenti in cui affronta quell’America. Un mito scomparso.