RACCONTO: Picasso nella piazza di Chicago

Spread the love

“Grazie per lo spiraglio. Grazie per l’illusione. Non so se ora sono un incidente di percorso o una piccola vendetta. Nel mentre ci pensi ti saluto” le disse da lontano mentre con gli occhi chiusi guardava l’essenza della sera che scendeva sulla bocca.
Lei non c’era e lui non sapeva dove fosse e dove mai sarebbe stata in quell’istante ed il quel momento, ma sapevo che la stava salutando. È strano desiderarsi ancora sapendo di non volersi davvero. O forse di non avere il coraggio di farlo.

Lui sapeva di non avere neanche la voglia di confessarlo a se stesso per non tornare ad essere schiavo del desiderio di lei! Non voleva più stratagemmi dell’eros nella sua vita. Ci sono cose a cui è necessario dire addio, soprattutto dirlo dentro se stessi. Non sono i desideri a rendere schiavi le persone, sono le abitudini, quel torpore di noia che troppo spesso non ci fa pensare che cambiare un percorso potrebbe rivoluzionarci la vita. Aveva conosciuto molti tossicodipendenti nella sua vita, specialmente per il suo lavoro nelle comunità di recupero ed aveva visto che a parte le prime volte in cui avevano cominciato, il resto delle volte lo facevano perché ne avevano bisogno. La necessità fisica è quella che elimina il piacere da qualsiasi cosa. Crea un rituale, una cerimonia, una liturgia che si estrinseca in ogni cosa. Lui lo sapeva benissimo visto che si era attaccato alla sua routine ormai consolidata. Il vero problema è che non ricordava più il motivo. Non ricordava più molto del suo passato. Faceva le cose perché occupavano lo spazio delle abitudini nell’articolazioni della sua psiche ma ogni volta che gli chiedevano il motivo la domanda si perdeva nei suoi occhi oramai acquosi e scendeva lungo un sorriso triste che si estende lungo le labbra allungate.

Una volte gli piaceva andare nei musei. Sedeva nella stanza della pittura impressionista e rimaneva lì senza guardare. Ascoltava. Ascoltava i commenti e le chiacchiere della gente che guardava quei capolavori e li commentava con espressioni di meraviglie e stupore che duravano lo spazio di 20 o 30 secondi al massimo. Si chiedeva come era possibile che il genio umano potesse essere liquidato da qualche “fantastico” o ”wow” o “meraviglioso” per poi passare alla stanza successivo. Quella era la cosa che non sopportava, che la bellezza potesse essere ridotta ad un supermarket dell’emozione e soprattutto ad un supermarket della visione. Lui ricordava ogni singolo frammento della sua pelle abbronzata abbarbicata alla sua in quel periodo oramai lontano nel tempo, ricordava quella statua che era fatta dagli spazzolini e dagli altri elementi del bagno in comune. I dentifrici e le bottiglie di collutorio con i loro colori rossi ed acidi sembravano formare la statua di Picasso nella piazza di Chicago. La cucina con le scatole di cibo da riscaldare e cucinare poteva sembrare una qualsiasi emeroteca dove erano conservati i settimanali delle loro possibili vita insieme. Specialmente quelle che non erano state. Lui aveva sempre trovate incredibile quanto la maggior parte della gente desse più importanza al sesso che al cibo. “Mangiare era una piccola buona cosa” aveva trovato scritto dentro un racconto di un dei suoi scrittori preferiti, uno di quelle che aveva letto con tutti in sensi e tutti i sessi. Gli piaceva fare l’amore, gli piaceva quell’essere stretto e compenetrato in un altro corpo, gli piaceva quell’diventare uno senza esserlo definitivamente. Però quello che amavo era quel senso dell’abbraccio che scaldava dal freddo post-orgasmico, quello che a volte rimane nella terra desolata del piacere post-coito. Lì ti accorgi sempre della mappa emozionale di una persona, chiunque essa sia. E’ un momento di verità assoluta che le parole non sanno esprimere. Anche perché niente è più equivoche delle parole. Le parole non sono precise come si crede, le parole sono un equivoco. A volte non ce ne rendiamo conto, ma se chiediamo di descrivere una cosa a cinque persone diverse daranno cinque descrizioni diverse. Le parole stesse sono diverse. Provate a pensare ad una parola importante come “immersione” e molto probabilmente su Google troverete un campionario di elettrodomestici che mescolano uova ed altri ingredienti per ottenere una maionese. Poi magari una serie pinne per attività subacquee. Pochi saranno i risultati che magari raffigurano un viaggio dentro se stessi, dentro la propria psiche o il proprio vissuto. Le parole sono nostre e nello stesso tempo non lo sono. Le usiamo, sono una convenzione, comune, eppure molto spesso costruiamo dei vocabolari più ristretti, gergali, che sedimentano i gruppi. Lui era stanco di parlare e soprattutto era stanco di aspettare soprattutto di aspettare un segnale. Così a fatica si alzò e mise un piede dopo l’altro e si mise a camminare. Nessuno l’ha più visto. Alcuni dicono che abbia fondato un nuovo linguaggio in un continente sommerso. Magari ha solamente fondato un nuovo modo di parlare.