Orange is the new black 4: Il ritratto più spietato. E bello

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Quarta stagione per Orange is the new black, che oramai ha superato i confini della semplice serie tv, tanto che è difficile anche classificarla. Non è una comedy, non è un drama e in fondo la sua grandezza è proprio quella di raccontare grandi temi, sociali e personali, con leggerezza, ma anche mostrando l’abisso e la disperazione della vita femminile, e non solo, sia dentro che fuori da un carcere non di massima sicurezza. Forse Litchfield, questo il nome del carcere, è una grande metafora degli Stati Uniti, con il suo melting pot razziale, le sue manie, le sue libertà, le sue sofferenze e le sue crudeltà. Nessuna delle stagioni precedenti ha raggiunto questi livelli drammatici, oso dire tragici in alcuni frangenti, rimanendo però fedele alla sua identità e alle sue premesse.

 

OITNB ha forse uno dei cast più grandi e migliori mai visti dentro una serie tv, pluripremiato, da Taylor Schilling, Piper Chapman, che potremmo definire la prima protagonista, insieme a Laura Prepon, Alex Vause, la fidanzata della Chapman. Per non dimenticare Kate Mulgrew, Red, Uzo Aduba, Crazy Eyes, Natashan Lyonne, quella Nicky che rientra dal periodo in massima sicurezza. Sono tante, divise in gruppi etnici, le bianche, le nere, le ispaniche, con tante divisioni interne fra messicane e dominicane che stavolta vogliono dominare la prigione.
Stavolta gli uomini hanno un peso rilevante, a cominciare dal nuovo direttore proprio Joe Caputo, Nick Sandow, che finalmente è riuscito nel suo sogno, ma che non sa che razza di problema ha ereditato, poi Micheal Harney che interpreta Sam Healy, diciamo il volto umano delle guardie. Ultimo il nuovo capo delle guardie Piscatella, che ha faccia e barba di Brad William Henke, un gigante hipster molto interessante anche nel suo gusto per la crudeltà e nello sbaragliare le gang, ma viene dalla massima sicurezza, per lui non ci sono tinte leggere. Con lui vengono anche una serie di guardie carcerarie, molti reduci dall’Afghanistan che rappresentano quel clima di intolleranza, sessismo e razzismo che rischia di aggravarsi con l’elezione di Trump (vedi la sua proposta di schedare tutti i musulmani).
Tinte fosche e capitalismo, perché oramai Litchfield è un business come molti istituti di pena negli Stati Uniti e come tutti i business deve generare profitti. Questa è la parte politica di OITNB, più pronunciata rispetto alle altre stagioni, soprattutto con vicenda di Sophia Burset, interpretato da Laverne Cox, attrice, produttrice e attivista per i diritti della comunità LGBT. Soprattutto nella prima stagione il suo personaggio ha calamitato l’attenzione dei media americani spostando il focus proprio sui diritti delle minoranze di genere. Fra l’altro Laverne Cox ha reinterpretato il ruolo che fu di Tim Curry nel Rocky Horror Picture Show.
Il lavoro basato sul memoriale di Piper Kerman (a sinistra nella foto) – Orange Is the New Black: My Year in a Women’s Prison – su cui è basato il personaggio di Piper Chapman, poi sviluppato dalla sceneggiatrice Jenji Kohan è andato oltre le aspettative. Non so se Kohan, che ha anche sviluppato una serie con una protagonista femminile come Weeds, si rendesse conto che oramai la serie è una sorta di manifesto, quasi una piattaforma politica che non sta mostrando una soluzione, perché non è il suo compito, ma la deriva dello scontro. Il finale è emblematico non delle società multiculturali, ma bensì delle società non inclusive. Sarebbe opportune che anche la politiche guardasse le serie tv, alcune, per capire il racconto del mondo che cambia, specialmente qui da noi dove stiamo diventando ostaggi di un racconto monocorde, che si può cambiare. Quando mi lamento dell’attuale comunicazione politica non lo faccio perché la comunicazione è la soluzione di tutti i male, ma resto convinto che una buona comunicazione sia il primo passo per una comprensione migliore dei problemi, che è il primo passo necessario passo per modificare qualcosa.
Questa è una grande serie.