Marlon e la maglietta che non c’è

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10 anni fa moriva Marlon Brando a 80 anni. Chi era davvero e chi è stato è ancora difficile a dirlo. Forse solo la Monroe è paragonabile a lui nell’essere diventata icona del cinema, ma il destino di Brando è stato oltre. Talento puro anche senza recitare, è stato una presenza ingombrante per tutta la sua vita, anche prima di ingrassare a dismisura, destino toccato ad un altro amante degli eccessi a cui è dedicato questo blog, Orson Welles. Eppure non ci sono magliette con Brando, perché al massimo c’è la faccia di Don Vito Corleone, ma non la sua. Ma che faccia aveva Brando?
In fondo non lo sappiamo, perché i suoi personaggi sono diventati talmente forti nell’immaginario da oltrepassare la sua persona di attore. A Brando non serviva recitare, bastava mettere in mostra il suo viso. Faccia da cinema. “C’ha ‘na faccia” mi raccontava mio nonno, che l’aveva incontrato in Messico sul set di Viva Zapata e mentre lo diceva pareva ancora figurarselo di fronte agli occhi. In fondo Brando è stato tante icone, questo sicuramente più della Monroe, cristallizzata nella maschera bionda, mentre lui è stato Il Selvaggio, è stato Stanley Kowalsky in  Un tram che si chiama desiderio, e Terry Malloy in Fronte del Porto.
Eppure è quando inizia a provare un marcato accento tedesco e a tingersi i capelli di biondo che comincia a essere Brando, l’icona, a dare quel senso di suo proprio trasformismo, che va ben al di là del metodo di lavoro dell’attore. I Giovani Leoni è un film importante, anzi fondamentale per cui Marlon sta diventando un’icona. Primo perché in pochi avrebbero fatto il ruolo di un nazista in quel modo, disse in un’intervista di essersi ispirato a Roma città aperta, a quei nazisti decadenti, lascivi e caricaturali realizzati da Rossellini, poi a farlo accanto a Montgomery Clift e Dean Martin, il primo era l’immagine del tormentato, l’altro dell’eroe americano. Lui vide uno spazio e ci si inserì, tanto che è quella è il vero manifesto che si ricorda di quel film.
Alcuni classificano il periodo degli anni ’60 come una decadenza. Quando leggi una lista in cui lavorò con registi del calibro di Arthur Penn (La Caccia) e John Houston (Riflessi in un occhio d’oro) ti vengono i dubbi, ma questi sono i misteri di chi fa le bio rapide e della critica che a volte ha poco tempo nel vedere certi particolari.
Dopo, gli anni ’70 è “mitificio”, scusate l’orribile neologismo. Don Vito Corleone, Paul del tango di Bertolucci, che sembra quasi fotografarlo, e Jor-El il padre di Superman. Non è cosa da tutti, essere il simbolo della sessualità selvaggi, diventare il padre del più famoso supereroe ed il mafioso per antonomasia sono cose che riescono solo a chi ha quella faccia. L’incoronazione viene dopo, con l’ultimo film forse più atteso della storia del cinema: Apocalypse Now. Brando per me è e rimarrà Kurtz, soprattutto per la foto messa in apertura, lui, con la sua mole imponente, con la testa rasata che tiene un’insetto poggiato sulla punta di un dito. Quella testa è una di quelle icone che fra cent’anni guarderanno ancora, mentre tutti intorno le immagini si consumano senza posa. Eppure se la cercate difficilmente la troverete su una maglietta o su un mug. Perchè?
Troppo grande. Il suo mito non è totalmente consumabile, c’hanno provato con la versione Redux, ma è sfuggito, nell’ultima parte della sua vita sembra davvero voler evadere dal suo personaggio, quello che aveva costruito. Il colonnello Kurtz simboleggia come personaggio e come figura iconica la parabola di Brando, oltre che quella dell’immaginario occidentale. Mentre tutto brucia lui rimane lì, anche oltre la morte stessa, come l’ultimo segnale di quello che è stato il cinema, oggi morto nonostante ci siano ancora i film, come una vestigia di una civiltà che si spegne e si divora. Tutto il film è una metafora, ma è ancora più il racconto della fine di un’epoca, come era stato Cuore di Tenebra di Joseph Conrad, romanzo a cui è ispirato. Brando ha voluto scomparire, lasciando di sé anche lui le vestigia di un grande passato, lo ha fatto con la beffa del rifiuto dell’Oscar per Il padrino, quando mandò una nativa americana che parlò del pessimo trattamento che la sua gente aveva subito dall’industria del cinema. In realtà la ragazza era un’attrice messicana. Una grande ironia.