Sacro Gra e il quid scomparso

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Sacro Gra e il quid scomparso

Qualche giorno fa sono andato a vedere il vincitore di Venezia, quel Sacro GRA di Gianfranco Rosi che ha raccolto consensi e sta anche andando bene al botteghino. Si è parlato anche di rinascita del documentario e di molte belle cose, ma forse qualche riflessione bisogna farla.

Non ho visto molto dei film usciti dalla kermesse lagunare ma a me Sacro GRA non sembra un film da premio, o meglio da primo premio, come non mi sembra neanche un documentario. Il fil rouge che lega le micro-storie che si intervallano nel film è di coesistere intorno al grande raccordo anulare di Roma, anello stradale della capitale. Il film sembra molto recitato nonostante l’etichetta di documentario, e oltre il raccordo, la matrice comune è esistenziale: quella di una profonda solitudine. Sono soli il Cavaliere di San Casimiro, nel suo simil castello, che fa bed and brefast (sic), le prostitute anziane nel camper, la signora che abita in un appartamento dopo che la sua casa è stata distrutta dall’alluvione, il salvatore delle palme, il barelliere che mangia di fronte al computer chattando con due sconosciute e tutti gli altri. Vivono tutti sotto un cielo che cambia velocemente, con questo grandi masse di nuvole che si spostano, tipiche di molte metropoli anche per colpa dello smog.
Certamente il film è godibile, scorre per quasi tutto il tempo, ma alla fine ha ragione Jay Weissberg di Variety: L’idea rimane più coinvolgenti rispetto al prodotto finale. C’è una certa debolezza, nonostante la confezione sia ben curata, ma mi chiedo se non sia voluta, visto che l’idea di fondo, non voglio azzardare il senso, sta in una frase che lo stesso Rosi ha detto a Venezia, cioè che Roma sia una città mummia. Io da romano non concordo molto, perché la dimensiona di questa città oggi, è quella di una città di sopravvissuti, come tante altre città occidentali, maggiormente qui dove pesa la storia passata e dove ci sono 7 città sotterranee sovrapposte. Sicuramente era più convincente il precedente film El Sicario Room 164, che potete trovare e vedere a fine post, che racconta il lavoro di un killer, molto diverso dall’acerbo, brillate e situazionista Il Cameramen e l’Assassino di Remy Belvaux del 1992, che tenta la narrazione di un altro sicario, ma con l’intenzione di rendere il pubblico complice.

Ero uscito contento dal cinema, diciamo soddisfatto, eppure mentre il tempo passa, mi chiedo cosa sia quella cosa che mi sfugge e che ora mi impedisce di apprezzarlo pienamente. Quel quid che prima c’era. O che forse non c’era.